Google ha stipulato due giorni fa un accordo con l’agenzia delle Entrate e ha chiuso i suoi contenziosi con il fisco, pagando 306 milioni di euro.
La cosa è molto complessa, ma il giro del vapore si può sintetizzare con il Sole 24 ore: “Il cliente italiano versava i soldi per gli spazi pubblicitari acquistati su Google ad una società irlandese, la Google Ireland Ltd, che a sua volta versava delle royalties per i diritti intellettuali ad una entità olandese, la Google Netherlands Holding bv. A questo punto i soldi tornavano in Irlanda nelle casse della Google Ireland Holdings, che poi li trasferiva a due società delle Bermuda, paradiso fiscale dove non esistono imposte sugli utili societari”.
Eddai, too much. Non solo Google, ma gran parte degli operatori della Silicon Valley montano strutture simili.
I paesi del fianco sud dell’Europa oltre a bere e spendere tutto in donne (come da recente definizione del presidente dell’Europgruppo Dijsselbloem) evidentemente hanno ancora l’anello al naso: i loro cittadini usano i servizi digitali della Silicon Valley, abbandonano le loro tradizionali concessionarie di pubblicità con banali sedi a Roma o Milano, per affidarsi al cosiddetto sandwich olandese, con cui Google e soci non pagano imposte.
Bene dunque ha fatto la Procura di Milano ad accendere i fari su questi comportamenti e altrettanto efficace è stata l’Agenzia delle entrate.
Non sappiamo con esattezza quanto sia stato eluso, abbiamo l’impressione che faccia parte dell’accordo di transazione anche l’omissione dei dati puntuali, così come non sappiamo in che cosa consisterà l’accordo per il futuro. È certo che è, per le casse italiane, un passo avanti.
Insomma avrete capito che in questo caso la mano forte del fisco non ci abbia scandalizzato.
Nulla di male a cercare tutti i modi leciti per pagare meno imposte (non siamo dei pasdaran dei tributi, come ben sapete) ma quando diventa un “sistema” riservato a pochi, beh allora si deve discutere. Si potrebbe parlare di rendita non del monopolista (peraltro molti di questi giganti sembrano comportarsi come tali), ma dell’elusore. Si aggiornino i testi di economia.
Resta un buco della nostra legislazione. Che potrà, per chi ci ha seguito fino a qua, sembrare controintuitivo. Quando i grandi studi di fiscalisti, da Maisto a Erede, chiudono queste transazioni con l’Agenzia delle entrate, non riescono a cancellare la parte penale.
Mi spiego meglio. Nella vicenda Google, come nelle altre che si stanno trattando ora, sono coinvolti anche un pugno di manager, in genere per omessa dichiarazione dei redditi. Un reato.
La società fa un accordo con la Stato, ma non si riesce a chiudere il penale. È una follia. E figlia di quel clima di caccia alle streghe, più che alla sostanza dei quattrini, di questo paese.
L’omessa dichiarazione dei redditi in una costruzione elusiva come quella descritta sopra è sono la conseguenza di un piano perfettamente studiato a tavolino sfruttando tutti i buchi fiscali, non è una truffa. Non sono state cambiate le carte, costruite fatture false o posti artifici per occultare materialmente il fatturato o gli utili.
È tutto drammaticamente alla luce del sole. Una volta smontato il castelletto, che tutti conoscono, perché accanirsi con quella ristretta pattuglia di manager, in genere italiani, che ha subito (anche godendone i benefici, per carità) di una struttura fiscale pensata a ben altri livelli?
Lasciamo fare al processo penale il suo corso sui reati ben più gravi, utilizziamo la leva, spesso la clava, amministrativa e tributaria per smontare il giochetto. È molto più efficace e anche più conveniente per la nostra collettività. Molto più di un eventuale patteggiamento di un country manager italiano.
Nicola Porro, Il Giornale 6 maggio 2017