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11 settembre: come iniziò il declino dell’Occidente

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Epocale, storico: mai termini così abusati hanno colto in quell’occasione nel segno. Dopo vent’anni stiamo ancora qui a parlarne. L’11 settembre colpì davvero al cuore l’Occidente, lo risvegliò nel nuovo secolo. Lo colpì al centro: fisicamente, perché le Twin Towers erano nel cuore pulsante dell’economia e della finanza mondiale, in quella New York capitale morale dello Stato guida del mondo; simbolicamente, perché le immagini subito replicate dalle tv in ogni angolo della terra sembravano uscite da un film, tali da colpire e restare nell’immaginario comune; culturalmente, perché all’Occidente si proponeva una visione del mondo completamente “altra”, con altri valori e altri principi, non quelli della “società aperta”.

L’inizio della fine

Oggi noi possiamo dire che fu lì che cominciò quello che, con indubbia semplificazione, definiamo il “declino dell’Occidente”. Ci rendemmo conto allora che il nostro mondo aveva i piedi di argilla, che non eravamo disposti più a combattere per quei principi in cui pure dicevamo di credere e che accettavamo solo perché ci davano una relativa comodità di vita. Il modo in cui stiamo affrontando l’emergenza Covid, alla ricerca di un impossibile “rischio zero”, è l’ultima manifestazione in ordine di tempo di quella crisi iniziata allora. Il terrorista non ha paura di morire e noi sì, e con questo abbiamo detto tutto. D’altronde, se “solo un Dio potrà salvarci”, questo Dio non possiamo crearcelo a tavolino. Le fedi, quelle trascendenti e le altre secolari, sono sparite dal nostro mondo, da quello che è diventato un “deserto spirituale”. Possiamo però non ingannare o ingannarci, come seguitiamo a fare. Ed è qui che si apre il triste capitolo delle nostre classi dirigenti, politiche e intellettuali. Le quali, pervase da una cultura che ha perso il senso del tragico che è proprio dell’esistenza umana, e quindi anche quello della precarietà delle nostre conquiste, non esita a farsi involontaria complice dei carnefici. E anche ad avvolgersi in mastodontiche contraddizioni.

I due errori di Bush

In quei giorni al Campidoglio, a Washington, anch’esso sede di un attacco (per fortuna non riuscito) c’era un presidente conservatore, figlio d’arte, quel George W. Bush che incassò molta solidarietà fra la gente qualunque ma anche non poche ostilità da parte del ceto intellettuale che aveva prosperato nei campus americani. La risposta americana si concretizzò nell’invasione dell’Afghanistan, prima, e dell’Iraq, poi, le terre ove i terroristi avevano edificato le proprie basi. Proposito giusto e sacrosanto in verità, ma Bush sbagliò due volte in verità.

Una prima volta perché affiancò a questi compiti di polizia un’idea di State Building che non è propriamente liberale, come la si volle far passare, ma giacobina. Non a caso forse i suoi consiliori erano per lo più ex troskisti. E sbagliò perché fu forse da Guantanamo (come argomenta Giorgio Agamben) che iniziò quello “stato di eccezione” permanente per cui le nostre liberaldemocrazie contraddicono spesso e con troppa facilità i loro principi. Non fu su questo che però si appuntarono gli strali delle sinistre mondiali, a cominciare dalla nostra, ma su una presunta aggressività dell’Occidente che avrebbe causato per reazione il risentimento verso gli “infedeli”.

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