2 questioni americane da tenere d’occhio

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Ci sono due piccole grandi questioni americane che si potranno presto riflettere nel nostro portafoglio. Una riguarda il dollaro e l’altra i cosiddetti giganti del web (da Google a Facebook).

Il dollaro sta perdendo valore. O meglio rispetto a marzo, dall’inizio dell’emergenza Coronavirus, la moneta americana ha fatto segnare un deprezzamento del 10 per cento rispetto ad un paniere di valute internazionali. Il motivo, secondo gli analisti, è piuttosto semplice ed è legato ai vaccini. Essi sono la luce in fondo al tunnel per tutte le economie.  Ma soprattutto per quella americana per due motivi apparentemente contrastanti.

1.Il primo risiede nel fatto che il vaccino è made in Usa e là verrà più diffusamente distribuito e somministrato.

2.Il secondo riguarda invece i cosiddetti porti sicuri: nell’attuale incertezza sull’economia globale, le attività finanziarie americane sono considerate una riserva di valore più affidabile rispetto ad altri mercati più fragili o meno trasparenti. Ma con il venir meno della pandemia, quello americano non è più l’unico porto sicuro: si disinveste il dollaro, per cercare qualche attività che è cresciuta di meno.

La seconda questione riguarda il petrolio. Intendiamo il nuovo petrolio, che è quello dei dati. L’Economist, poche settimane fa, ha dato la sua soluzione: più concorrenza. Ma non stile anni ’70 e ’80. Più concorrenza vuol dire, ad esempio, la libera portabilità dei dati personali da una piattaforma all’altra. Roba complicata e di difficile attuazione pratica. Ma sarebbe una rivoluzione. La frase fatta ma vera, per la quale se «il servizio è gratis, il prodotto sei tu», che è più o meno il modello di business delle ricerche su internet, o delle pagine dei social network, potrebbe essere smontata in un futuro non troppo lontano. Si tratta di abbandonare le tradizionali ricette di antitrust, per adottare misure più pragmatiche ed efficaci.

A pensare bene è ciò che è avvenuto nella telefonia, che venti anni fa, nell’epoca pre internet diffuso, rappresentavano i campioni del mercato. Ebbene tutti conosciamo la pratica della portabilità del numero. Se l’oligopolio o il monopolio non lo smonti dall’alto, rischi di distruggerlo dal basso. È ciò che temono i big della Silicon Valley. Certo vederli interrogati, pochi giorni fa, dai senatori americani sulle questioni della libertà di parola, fa capire chi comanda.

Il pallino non è certo in mano a chi ha un seggio nel senato più importante del mondo. La barbetta da hipster del boss di Twitter accomodata in una postazione virtuale in un open space di San Francisco vale più di uno scranno a Washington. Sentite solo una frazione di un dialogo.

Senatore Rep: “Ma perché censurate le frasi di Trump sui brogli elettorali?”

La Barba di Twitter: “Noi indichiamo le fake news”.

Senatore Rep: “Ho letto più volte su Twitter che l’Olocausto è una balla, senza alcuna presa di posizione della sua barbetta”.

Twitter: “Vabbè, ma che centra. Noi non combattiamo la disinformazione in generale, ma solo quella che riguarda l’emergenza sanitaria e le manipolazioni delle informazioni durante le campagne elettorali”.

Cavolo che bel vestitino cucito su misura. E poi ieri apri il social della Barbetta e ti trovi questo cinguettio scritto da un bravo giornalista italiano: “Visto che non si può sciare, consiglio ai #negazionisti un viaggetto in #Svezia, qui speravano nella #immunità di gregge, hanno favorito una strage, 6.500 morti con 10 milioni di abitanti, come se fossero 65mila in Italia”. Qui si tratta di aritmetica. La proporzione non è quella indicata nel tweet.

In un modello liberale si dovrebbe lasciare la libertà al giornalista di scrivere ciò che vuole, anche a far male di conto. Si spera che chi lo legge lo capisca. Altrimenti la partita è comunque persa. Ecco tra dollaro e giganti del web si gioca la vera partita economica del prossimo decennio. Tutto il resto è Covid.

Nicola Porro, Il Giornale 28 novembre 2020

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