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25 aprile, la festa che divide

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Non c’è appuntamento più prevedibile e scontato del 25 aprile. Ogni anno le solite polemiche, le solite giaculatorie interne alla classe politica, la solita retorica. Un giorno in cui tutti si improvvisano storici, quando l’ultimo libro sul fascismo, sulla guerra o sulla Resistenza l’hanno magari (magari…) letto trent’anni prima. E meno male che negli ultimi tempi non abbiamo più assistito a manifestazioni violente.

Per la verità, benché gli argomenti siano gli stessi cambiando solo gli attori, non è che ogni anno la tensione sia la stessa. Oggi è alta, ma l’anno scorso non tanto, e per nulla quando governava il Pd. In genere dal 1994 a oggi la regola è questa: quando a Palazzo Chigi c’è la sinistra, regna il silenzio. Quando c’è la destra, la sinistra ne approfitta per denunciare il «fascismo strisciante».

E siccome a nessun leader piace essere sbertucciato e violentemente aggredito, come accadde al povero Umberto Bossi a Milano nel 1994, Berlusconi in genere si è tenuto lontano dal 25 aprile e così ha fatto quest’anno pure Salvini. L’unica volta che il Cav. vi partecipò, nel 2009, nella Onna terremotata, ciò non lo salvò da essere, da li a poco, preso di mira dal solito partito dei media e dei magistrati su Rubygate e via dicendo.

Quindi nulla di nuovo nelle accuse della sinistra, ieri al Cav oggi a Salvini, di non partecipare. Come nulla di nuovo nelle polemiche all’interno del governo: Casini o l’ultimo Fini, nel tentativo di farsi accreditare antifascisti massimi, non risparmiarono stoccate contro un Cav a loro dire troppo poco «resistenziale»

Ma le polemiche nascono perché i politici nulla di meglio hanno da fare o perché è la festa in sé a non poter diventare condivisa? Entrambe le tesi, ma la seconda pesa di più. Il 25 aprile infatti può diventare festa condivisa solo se la si ignora, la si trasforma in occasione di ponte (come da decenni fa la maggioranza degli italiani), Altrimenti non può che portare divisione. Per forza: si festeggia la liberazione contro i nazisti, che erano tedeschi, e lo si ricorda loro; ma al tempo stesso si festeggia la vittoria di una parte degli italiani contro l’altra, nella guerra civile che ci divise tra il 1943 e il 1945.

Una festa che ricorda sempre una guerra civile non potrà mai diventare condivisa, Lo sapevano già gli antichi greci, che dopo le guerre civili mettevano in atto riti per dimenticare. Mentre qui si vuole sempre tenere vivo il ricordo

Non a caso non esiste alcuna festa del genere in nessun paese dell’Europa occidentale. La Francia aveva qualcosa di simile, ma l’abolì all’inizio degli anni Settanta in segno di pace con la Germania di Bonn. Mentre le Feste di Liberazione andavano alla grande in URSS (che almeno la guerra l’aveva vinta) e nei paesi del blocco orientale: che però erano stati «liberati» dai carri armati sovietici, che avevano introdotto un’altra dittatura.

La cosa migliore sarebbe (o sarebbe stata) quella di trasformarla, come è stato fatto in certi paesi dell’ex patto di Varsavia dopo il 1989, in Festa della Conciliazione. Ma tutte le volte che partì questa proposta, da destra ma anche, più raramente, da sinistra (ricordiamo l’importante discorso di Luciano Violante presidente della Camera) si alzò un tanto e tale coro di sdegno, che non se ne fece nulla.

Solo un’autorità come il Quirinale potrebbe (o avrebbe potuto) svolgere un’impresa simile, un discorso di conciliazione. Ma l’unico che lo tentò fu l’ultimo Cossiga, però sotto quasi impeachment dei post-comunisti di Occhetto e inviso e demonizzato dalla sinistra. I suoi successori sono stati invece tutti più o meno conciliatori, a seconda della figura e del periodo: ma sempre ribadirono che una parte aveva avuto ragione e l’altro torto. Mentre, decenni dopo, non è così che la questione andrebbe posta.

Alcuni inquilini del Quirinale si sono poi spinti più avanti. Hanno suggerito a (noi) storici come scrivere la storia. E a non farsi tentare, per caso, di cercare le ragioni degli sconfitti. Lo fece Ciampi nel 2002 tuonando contro i «revisionismi» (e revisionista, per dire, era Renzo De Felice)

Ancora più oltre è andato Mattarella, intimando che «la storia non può essere riscritta». Questo, caro signor Presidente, è però inaccettabile. Dire che non «si può riscrivere la storia» a uno storico è come pretendere che un fisico non si rechi più in laboratorio o un musicologo smetta di ascoltare più sinfonie o opere. La storia – lo sanno tutti quelli che se ne occupano, anche a livello amatoriale – è infatti continua riscrittura, continua interpretazione, continua revisione.

Se qualche presidente avesse suggerito negli anni Sessanta a Renzo De Felice o un ventennio dopo a Claudio Pavone di non «riscrivere la storia», e loro l’avessero preso sul serio, oggi del fascismo e della resistenza sapremmo poco o niente.

Né spetta al presidente della Repubblica fissare i criteri di quale sia l’interpretazione giusta o quella sbagliata. Quello lasciamo a Erdogan, che fa pure sbattere in galera gli storici che documentano il genocidio armeno – cosa che in verità facevano anche i suoi predecessori. Tutte parole vane, temo. Il prossimo anno, dovesse stare la sinistra al governo (Dio ce ne scampi e liberi!) sarà tutto silenziato. Nel caso contrario, risentiremo le stesse parole e le stesse denunce: il solito, scontato, repertorio.

Marco Gervasoni, 25 aprile 2019