La propensione all’unità si esalta per il 25 aprile, un tempo festa dell’antifascismo che doveva mettere tutti d’accordo. Ieri, edizione numero 77 della liturgia resistenziale, abbiamo assistito a una supernova rossa che ha scatenato un turbine di schegge scarlatte.
Tutti contro tutti o, per dirla meglio: un bordello surreale, un manicomio di pazzi in libertà. I duri e puri di Rifondazione, che a quanto pare esistono ancora, anche se forse confinati tra centri sociali e trattorie cospiratorie, che, per non sbagliare, ce l’hanno sia con Putin che col Patto Atlantico e sfilano con la bandiera americana personalizzata dalla falce della Morte; il segretario piddino Letta che, da Roma si dissocia; a Milano lo azzannano quale servo della Nato; il sindaco meneghino Sala che si dissocia da quelli che si sono dissociati da Letta; l’Anpi, udite udite, che contesta stendardi e slogan antiamericani; Mattarella che bacchetta un po’ alla cieca a tempo di “Bella ciao”; i soliti democratici progressivi che sanno tutto e pretendono “fuori i servizi della Nato”, che è una frase stentorea ma non chiarisce niente; gli intransigenti che fuori dalla Nato, ohibò, ci vogliono l’Italia; non mancano, perché la tradizione va pur sempre rispettata, quelli che vogliono legnare la Brigata Ebraica e, giustamente, quegli altri che pesterebbero volentieri quelli che ce l’hanno con la Brigata Ebraica. A forza di dissociarsi tutti da tutti, la sinistra è arrivata alla dissociazione mentale. Pare di assistere alla scena finale di Febbre da cavallo, quella con Gigi Proietti e Montesano sul banco degli imputati: “Questo nun è un processo: è ‘n casino!”.
Niente di nuovo sul fronte occidentale e grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è demente. La galassia di sinistra, anche se ormai la destra ne ha assorbito pure questa caratteristica, ha sempre sofferto il divisionismo, il frazionismo degli allucinati, i partitini si creano per partenogenesi e di qui per scissione dell’atomo; qui, però, siamo arrivati alla sindrome del conte Ugolino, un cannibalismo familiare compulsivo, esasperato dalla variante Putin che ha fatto saltare tutti gli schemi. Massimalisti, trattativisti, nostalgici, orfani della Terza Internazionale, filoucraini, antiucraini, neozaristi, paleomarxisti, ur-comunisti, cattocomunisti, pacifisti armati, antiglobalisti, postglobalisti, dissenzienti, arcobaleni, iperstatalisti, critici-criptici, sinistri veri, sinistri ortodossi, sinistri francofortesi, toninegristi, movimentisti, situazionisti, anarcoinsurrezionalisti, leninisti, entristi, archeocastristi, sovietisti, collettivisti, proudhoniani, proustiani, filocinesi, tifosi del Donbass, tifosi del greenpass, nemici di questo e di quello: non si capisce un cazzo, ma non è questo il punto, il punto è che manco loro sanno dove vanno.
La sinistra che all’inizio del Duemila era fieramente noglobal si è trasformata altrettanto orgogliosamente in globalista, cioè di potere finanziario e tecnologico, poi è tornata antiglobalista a macchia di leopardo, anzi di giaguaro, però non tutta, una generosa fetta si è scoperta realista, cioè se per durare dobbiamo giurare fedeltà all’Atlantismo, ebbene che ci costa? Come diceva Mao, chi se ne frega del colore del gatto, l’importante è che acchiappi i topi.
Più che un 25 aprile, pare un 8 settembre. Inzuppato in generose contraddizioni. Ci si schiera, in modo felpato, con la vasellina del né Putin né Zelensky (quasi che una invasione da uno stato a un altro si riducesse a un reality fra due personaggi), il che in soldoni significa con il nuovo Zar, giudicandolo un baluardo contro l’Occidente globalista ma rifiutando di vedere che non c’è niente di più globalizzato di un autocrate con 200 miliardi sparpagliati per le banche di tutto l’Occidente, che risponde a un dittatore assai più grosso e più globale, il capo supremo e a vita della potenza economica più globalizzata oggi al mondo.