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5 motivi per essere favorevoli allo smart working

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“Lo smart working può funzionare in momenti e occasioni speciali, ma non può diventare né la regola generale né il futuro, a meno che non si vogliano massacrare commercio e servizi, desertificando quartieri e città col rischio di diminuire perfino la sicurezza”. L’ha detto sabato Matteo Salvini, leader della Lega. Ma la crociata contro il telelavoro non è un’esclusiva sovranista: anche Beppe Sala, preoccupato dallo svuotamento di Milano, ha lanciato vari appelli al rientro negli uffici.
Il lavoro a distanza non è tutt’oro. Di sicuro limita le occasioni di socializzazione tra colleghi. Probabilmente indebolisce la posizione dei dipendenti nei confronti dei dirigenti. E come ha lamentato qualcuno, non percependo un netto stacco tra ufficio e casa, ci si può ritrovare a lavorare anche a orari improbabili. Quanto all’impatto sulla produttività, indagini risolutive devono ancora emergere. L’impressione è che, come nel lavoro in presenza, anche nello smart working tenda a riprodursi la forbice tra settore pubblico e impresa.

Eppure, io credo che Salvini, Sala e gli altri critici del telelavoro si sbaglino. Se scelto e non imposto – cioè, se realmente “flessibile” e “intelligente” – lo smart working è un’occasione ghiottissima per dipendenti e aziende. Per almeno cinque motivi.

In primo luogo, consente di riscoprire l’importanza della casa. Ormai ridotta a dormitorio, l’abitazione è invece un luogo d’identità e responsabilizzazione. Nucleo, per dire, del “popular capitalism” di Margaret Thatcher. Gli italiani, storicamente proprietari d’immobili, lo dovrebbero sapere. Rivendicare la centralità del mattone è una risposta a chi ha fatto di tutto per penalizzarlo, favorendo al contempo le insostenibili bolle immobiliari delle metropoli.

E con ciò veniamo al secondo punto. Lo smart working è un’insperata ancora di salvezza per aree interne e Meridione, afflitti dallo spopolamento e dal dramma della fuga dei giovani verso i grandi centri urbani settentrionali. Rivitalizzare queste aree, lasciando che al contempo operino al servizio delle principali realtà produttive del Paese, significa ridare vita a un pezzo d’Italia che sta morendo. E questo, nonostante le apparenze, sarebbe un bene pure per le metropoli.
Sì, grazie allo sviluppo del terziario, in città come Milano, commercio e ristorazione hanno ricevuto un impulso considerevole. Ma siamo sicuri che una contrazione nelle megalopoli costituisca una perdita in termini assoluti? Non se, per dire, dieci negozi in meno a corso Buenos Aires significano dieci negozi in più a Caltanissetta. È una transizione che va accompagnata, ma non è per forza una strage occupazionale – anzi. D’altronde, che certe attività si sostituiscano ad altre rientra nella normalità dell’evoluzione di un sistema economico. Il piccolo commercio è minacciato molto più dalla grande distribuzione che dalla ripartizione della popolazione sul territorio nazionale.

La verità qui è un’altra: chi, nelle grandi città, ha lucrato su un patrimonio immobiliare spesso scadente, affittando e vendendo a prezzi insostenibili per le tasche di un lavoratore medio, teme si riduca il ricco business fondato sulla rendita. È un problema? Ne dubito. Un dipendente guadagna lo stesso stipendio a Milano come a Palermo, solo che 1.500 euro hanno un valore diverso nelle due città. Sala, non a torto, aveva tirato fuori l’idea delle gabbie salariali: una possibile soluzione per la Pa, difficilmente applicabile ai privati.
Certo, il top sarebbe potersi permettere un attico su via del Corso a Roma, con vista panoramica sul centro storico. Ma se me lo consentite (motivo numero tre), per una persona “normale”, è meglio una vita in provincia, in una casa dignitosa, con ritmi umani, piuttosto che un’esistenza in una grigia periferia lombarda, o in un monolocale londinese che ha la tazza del water sotto il letto soppalcato, al modico canone di oltre 700 sterline (mi riferisco a un vero annuncio immobiliare, comparso recentemente nella City). A San Francisco, la colonizzazione dei big della tecnologia ha comportato un aumento così spropositato del costo della vita, da moltiplicare il numero di homeless, immiserendo la classe media.

Ecco: lo smart working potrebbe essere uno strumento di rivincita per la classe media, “cinesizzata” dalla globalizzazione. Peraltro – motivo numero quattro – le metropoli diventerebbero a loro volta più vivibili. Altro che desertificazione e insicurezza: meno pressione abitativa, meno traffico, meno smog, meno folla, prezzi più bassi. Purché, ovviamente, i “vuoti” non vengano riempiti da migranti sottoqualificati e dediti alla delinquenza: su questo è la politica che dovrebbe vigilare. D’altronde, finora, i progetti di riqualificazione di aree degradate, come la zona di Gae Aulenti a Milano, hanno prodotto solamente altri quartieri esclusivi. Belli solo da vedere, se non sei Chiara Ferragni. L’operaio e l’impiegato continuano a vivere in squallide e insicure periferie, come Salvini dovrebbe ricordare…

Infine, alle imprese, questa metamorfosi non costerebbe nulla: potrebbero gestire sedi più piccole, contraendo i costi, senza penalizzare i lavoratori, che di solito sono i primi colpiti da tagli e “razionalizzazioni”. Anzi, per un dipendente che pratica “south working”, com’è stato ribattezzato il telelavoro dal Sud, la stessa busta paga corrisponderebbe, di fatto, a un aumento. Più soldi a fine mese, più tempo per se stessi, meno spostamenti stressanti, meno ore trascorse in metro o su una tangenziale intasata (e, magari, più passeggiate, più sport), orari meno estremi, più possibilità di seguire i figli. Alla socializzazione, poi, c’è rimedio. Siamo nell’era dei viaggi low cost, degli aperitivi, dei weekend fuori porta: davvero allontanarsi da una sede centrale ci renderebbe più soli? Senza contare che molta gente, prima di fruire dello smart working, lavorava così tanto da non avere alcuna voglia, una volta fuori dall’ufficio, di fare vita mondana.

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