Da Mediobanca ad una banca media. Della storica Mediobanca di Enrico Cuccia è rimasto solo il nome e il logo con l’ambrosino, la moneta d’oro coniata dalla Repubblica ambrosiana nel 1400. La moderna merchant bank infatti sta dando prova di una carenza di visione da perdere terreno rispetto a competitor come Rothschild, subendo così la colonizzazione del mercato italiano. Escludendo Compass e Generali, oggi Mediobanca è diventata poca cosa. Sotto la guida dell’Ad Alberto Nagel e dell’inseparabile presidente Renato Pagliaro, da ormai quasi 20 anni la banca di Piazzetta Cuccia ha smesso di volare alto, diventando simile ad un calabrone. Calabrone perché le dimensioni limitate e le poche economie di scala non le consentono di stare troppo in volo, pur non disdegnando l’utilizzo arrogante del pungiglione qua e là. Tuttavia, Mediobanca riesce ancora a volare sostenuta dalle correnti di aria calda che arrivano dal ricco dividendo di Generali, di cui detiene il 13% lasciato in dote a Nagel da Cuccia, e che alimenta i fondi internazionali, con tanto di parcelle milionarie soprattutto nel settore immobiliare. Che faccia il bello o il cattivo tempo, il Leone di Trieste – dove Nagel ora pensa di sostituire l’Ad Philippe Donnet, il nuovo doge che preferisce gli sfarzi di Venezia alla routine triestina, con l’attuale Cfo Cristiano Borean – contribuisce, per circa un terzo dei ricavi, al benessere della banca milanese e dei suoi due top manager, i Paperoni d’Italia. Ma per continuare a garantirsi il controllo su Generali e sulle sue poltrone, Mediobanca non può diluire la propria quota di controllo nel colosso assicurativo. Dal canto suo, Francesco Milleri, Ad di Luxottica, si ostina a proseguire la battaglia contro Piazzetta Cuccia da quando Leonardo Del Vecchio, grande alleato di Francesco Caltagirone, voleva diventare padrone dello IEO, l’Istituto Europeo di Oncologia fondato da Umberto Veronesi e finanziato da Enrico Cuccia, che lo aveva affidato alle cure di Pagliaro. Quest’ultimo, fedele alle consegne del suo saggio mentore, respinse l’attacco di Del Vecchio che, più per ripicca che per convinzione, si mise a scalare Mediobanca. Difatti, l’obiettivo di Milleri, in vista del rinnovo del cda a ottobre, è proprio quello di sostituire Pagliaro alla presidenza. Voleva metterci l’ex ministro del Tesoro Vittorio Grilli, ma Nagel ha detto no, così come ha detto no ad una vecchia volpe come Fabrizio Palenzona, che fu pupillo di Vincenzo Maranghi.
La strategia di Generali è, dunque, condizionata dalle necessità del management della banca d’affari milanese a cui garantisce longevità e bonus milionari. Ma cosa interessa agli italiani assistere a questo risiko della finanza? Ben poco. Il fortino che custodisce le azioni del più importante gruppo finanziario italiano pensa solo a sé stesso, del tutto indifferente alle dinamiche esterne. Impedendo ogni aggregazione che potrebbe dare vita ad un colosso di peso mondiale, come quello, ad esempio, derivante da una fusione tra Intesa Sanpaolo e Unicredit. I difensori del fortino si muovono, quindi, nei piccoli ambiti delle guerre di potere fra azionisti, facendoli assomigliare più a bancari che a grandi banchieri. Gli assedianti sono ora Francesco Caltagirone e gli eredi di Del Vecchio. Se ci fosse qualcuno al Governo capace di vedere il potenziale che si potrebbe sprigionare liberando la più grande assicurazione italiana dagli interessi di bottega di Mediobanca, apparirebbe chiaro il disegno di costituire un polo assicurativo mondiale a guida italiana. Ma al Governo in questo momento, si sa, sono impegnati ad improvvisare sugli extra profitti delle banche ed in altre misure di piccolo cabotaggio buone per i post su X o Twitter che dir si voglia. A Milano, come a Roma, fra le poche menti pensanti rimaste c’è una grande nostalgia di Enrico Cuccia e della Prima Repubblica. La contendibilità della governance è come la concorrenza: quando manca, o è debole o si generano mostri. Pensando di essere il degno erede di Cuccia, Alberto Nagel, che si fa accompagnare nei palazzi e nelle ville romane da Lorenzo Pelliccioli, il più smart tra i finanzieri italiani a lui legato sin dai tempi di Seat Pagine Gialle, prova ad autoperpetuare la sua posizione. Tuttavia, nel suo lungo processo di arroccamento, rimane sempre una macchia indelebile: aver impoverito Generali e, quindi, l’Italia. Di aumenti di capitale neanche a parlarne ed ecco, quindi, la strada spianata per Allianz e Axa, diventati i due colossi europei e anche grandi player in India e Cina, con Generali in frenata e ormai sull’ultimo gradino del podio in Europa. E adesso l’atto finale: l’arcinota battaglia combattuta da due campioni come Del Vecchio e Caltagirone si sposta, da Generali, direttamente nel fortino di Mediobanca, con un ago della bilancia politico che può oscillare in base al peso delle azioni differenziate per i soci storici Delfin e Caltagirone. Palazzo Chigi, che dovrebbe deliberare sul Ddl Capitali, decide di non farlo. Anche perché Giancarlo Giorgetti non è convinto di un testo che avvantaggia troppo le liste di minoranza. Eppure, altri Paesi, di certo non di capitalismo relazionale come l’Olanda, ne hanno fatto uno strumento di “marketing territoriale“, attraendo nel paese centinaia di holding da tutta Europa, italiane in primis. La decisione che sia il cda uscente a proporre i propri rinnovi e sostituti può funzionare a Wall Street, ma non in un mercato clientelare come quello italiano. Nagel ricorda in questo Mario Schimberni che voleva trasformare la Montedison in una public company e sappiamo come andò a finire, proprio per colpa di Cuccia e Mediobanca. Il Governo, per contare qualcosa in queste vicende, dovrebbe operare in due direzioni: rendere più contendibili le grandi aziende, evitando che gli arroccamenti soffochino le imprese e il potenziale economico del Paese; in secondo luogo, stabilire che non ci si possa candidare in cda per più di due volte, alzando i requisiti di professionalità vagliati, però sul serio, da Consob e Banca d’Italia. Anche per evitare che il board proponga sempre le stesse facce o gli stessi ‘compari’. Giorgia e i suoi ministri abbiano coraggio.
Luigi Bisignani, per Il Tempo, 25 settembre 2023