Se lasciamo che l’arte provochi la nostra libertà, veniamo sorpresi da corrispondenze che, come onde concentriche, si espandono in zone inesplorate della nostra coscienza più intima e, quindi, universale. Aldo Cazzullo procede così e definisce queste corrispondenze “gli incastri della memoria”.
E quanto più l’autore di un’opera è geniale, tanto più questa provocazione ispira uno spirito attento. In A riveder le stelle Cazzullo ci racconta di Dante, del suo viaggio infernale insieme a Virgilio. Un viaggio morale e anche fisico, percorrendo il quale comprendiamo meglio l’origine della nostra straordinaria italianità e le sfaccettature della nostra natura umana. “Dante non parla soltanto di sé “nel mezzo del cammin di nostra vita”, dove la parola chiave è nostra. Dante sta parlando anche di noi. Sentiamo Dante talmente vicino che non lo chiamiamo per cognome”.
È un’angolazione nuova perché non si limita all’esegesi della Divina Commedia, ma questa diventa mappa utile e concreta per orientarsi tra le passioni umane, tra l’Inferno e il Paradiso raccontati dai grandi eventi della storia, dagli artisti e dai poeti. Se Dante è supremo interprete della narrazione tra il mistero e il visibile, il Nostro ha il merito di leggere questa narrazione senza pregiudizi e di cucire una rete di corrispondenze brillanti e attuali.
Beatrice come salvezza
Dante verrà in contatto con tutte le sofferenze umane che prima di essere fisiche sono spirituali; la vivacità delle coloriture scolpite dal grandissimo poeta ci brucia sulla pelle come se fossimo lì con lui, ma il suo percorso è destinato alla salvezza perché un amore purissimo lo ha inaugurato, quello per Beatrice. “Qualcuno ha scritto che Beatrice non è mai esistita, ma non ci si innamora così di un’idea astratta. Sono le donne a muoversi per la salvezza dell’uomo. La donna è il capolavoro di Dio, la meraviglia del creato, e Beatrice, la donna amata, per Dante è la meraviglia delle meraviglie.[…] E quando scopre che Beatrice si è mossa per lui, Dante si risolleva, come un fiore chiuso e chino per la notte si rialza alla luce del sole”.
Ma l’amore non è solo agape. Può risolversi in un’attrazione ardente che domina i sensi e il cuore come per Paolo e Francesca. “[…] è una storia universale. Che ci riguarda tutti, perchè tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo smarrito la retta via, la ragione, il buonsenso per inseguire un amore impossibile. […] Ma la pietà, l’affetto, la condivisione del poeta sono tali che il V canto è forse il più bello della Divina Commedia; ed è quindi la più bella pagina scritta dagli uomini. […] Ogni terzina comincia con la parola “amore”. L’amore conquista subito il cuore gentile; l’amore non consente a nessun amato di non riamare a sua volta; l’amore ha condotto i due amanti alla stessa morte. L’amor “ch’a nullo amato amar perdona” è un verso che pare scritto ieri. Ed è uno dei misteri della vita. Davvero un amore non può non essere corrisposto? Oppure è vero il contrario? Forse ogni amore è un amore non corrisposto”.
Se lasciamo i due amanti con rammarico, perché desidereremmo redimerli qui, ora, subito, il climax infernale arriva al XIV canto con un amore egocentrico che si innalza fino a dove umanamente può, ma che è destinato a perire, perché lontano da Dio. Capaneo, empio tracotante che osò sfidare Giove, mentre scalava le mura della città e fu da lui fulminato, collocato tra i bestemmiatori: “Qual io fui vivo, tal son morto” nessun tormento sarebbe adeguato, fuori della sua stessa rabbia. Capaneo sfida apertamente Dioniso ed Ercole, protettori dei Tebani. Ed esorta Zeus a mostrare il proprio volto, anziché limitarsi a spaventare le donnicciole con i tuoni; provocato, Zeus lo fulmina con la sua folgore”.
La tracotanza di Mussolini
L’ὕβϱις, la tracotanza, tuttavia, non è relegata al mito, ma viene covata da tempo immemore da personalità che hanno dipinto la storia: “Qualcosa del genere – con diverso esito – farà il giovane Benito Mussolini. È il 26 marzo 1904. Esule in Svizzera, dove la settimana prima ha tenuto una conferenza per commemorare la Comune di Parigi davanti a Lenin (che ricavò di lui un’ottima impressione), il futuro Duce dibatte a Losanna con un pastore evangelico. In platea ci sono cinquecento persone. Argomento: l’esistenza di Dio. Per impressionare l’uditorio, Mussolini dà all’Onnipotente dieci minuti di tempo per fulminarlo; avendo Lui altro da fare, Benito a differenza di Capaneo la farà franca; e concluderà che Dio non esiste. Mussolini era allora nella fase socialista e rivoluzionaria. Venticinque anni dopo firmerà il Concordato con la Chiesa, e il Papa lo definirà “l’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare”.
Capaneo ha una sua grandezza, ma Dante non può che condannare la sua pretesa e il suo disprezzo per Dio, così la superbia di Capaneo, come quella di ogni altro uomo, trova la propria pena in se stessa.
Ulisse alter ego di Dante
Nel XXVI canto Dante si specchia completamente nel suo alter ego: Ulisse. “Dante è arrivato al culmine del suo viaggio infernale. Sta per raccontare l’incontro più importante: quello con se stesso. Meglio; con l’eroe che rappresenta quel Dante che è stato. È la storia di Ulisse. Ma è anche la sua. […] Nè la dolcezza del figlio, nè la devozione all’anziano genitore, nè l’amore dovuto a una sposa che l’aveva atteso tanto poterono vincere dentro di lui l’ardore di diventare “del mondo esperto”. “Ma misi me per l’alto mare aperto”, racconta Ulisse: solo con una nave e con i pochi compagni che mai l’avevano abbandonato”. Il viaggio di Ulisse, come quello di Dante, è anche l’esplorazione della terra più sconosciuta, dell’abisso più profondo: quello che ognuno di noi porta dentro di sè. L’Ulisse dantesco però rappresenta il culmine del coraggio non solo dell’uomo dell’antichità classica, ma di chiunque si metta alla ricerca di qualcosa che vada oltre se stesso.[…] Dante stima profondamente questo Ulisse e in parte ci si riconosce, ma il suo viaggio è diverso e guidato dalla fede che lo costringe ad abbassare il proprio orgoglio e raggiungere la salvezza immortale. Non è nè temerario nè sacrilego, ma voluto da Dio a cui il poeta si affida”.
“Ogni uomo custodisce il mistero del male e il prodigio della salvezza. Il massimo della cattiveria, e il massimo della generosità” e proprio alla fine del viaggio, Dante sta per fare il suo ultimo incontro; destinato a diventare uno dei più celebri della storia anche per il suo linguaggio tragico e feroce. Nella stessa fossa scavata nel ghiaccio ci sono due uomini. Uno divora il cervello dell’altro, azzannandolo alla nuca, “come ‘l pan per fame si manduca” con la stessa avidità con cui si mangia il pane quando si ha fame. “La bocca sollevò dal fiero pasto…” È il conte Ugolino che mastica il cranio dell’arcivescovo Ruggeri. Siamo nel XXXIII canto e Cazzullo sottolinea l’antitetico e bellissimo parallelismo tra l’incipit e l’explicit dell’Inferno, Francesca parla in nome dell’amore e il Conte Ugolino in nome dell’odio.
Rinchiusi nella torre senza cibo nè acqua i figli si offrono al padre, il conte Ugolino, come cibo: “Ahi dura terra, perché non t’apristi?” Il quarto giorno Gaddo gli si gettò ai piedi, dicendo “Padre mio, perché non m’aiuti?” Un grido che ricorda quello di Gesù sulla croce. Gaddo fu il primo a morire. Gli altri caddero uno a uno, tra il quinto e il sesto giorno. Allora il conte perse il controllo di sè, e per due giorni – ormai cieco – brancolò sui corpi dei ragazzi, chiamando i loro nomi, come per risvegliarli, “Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”.
Ed è in questa prigionia disumana ed efferata che Cazzullo lascia agire gli incastri della memoria e ci porta ad Auschwitz, dove il comandante del lager condanna dieci prigionieri alla morte per fame e padre Massimiliano Kolbe chiede e ottiene di sacrificarsi al posto di un padre di famiglia. “Il massimo della crudeltà e il massimo della nobiltà d’animo possono coesistere nello stesso momento e nello stesso luogo, Inferno e Paradiso possono coesistere nello stesso luogo e, come ci insegna Dante, nella stessa persona. Dopo due settimane di agonia, senza acqua nè cibo, sei condannati erano morti di stenti; ma quattro erano ancora vivi, e continuavano a pregare e cantare inni alla Madonna. Padre Kolbe era tra loro. Persino le SS rimasero turbate dalla forza morale del sacerdote. Si decise di uccidere lui e i suoi compagni con un’iniezione di acido fenico. Era il 14 agosto 1941, vigilia della festa dell’Assunta. I loro corpi furono cremati, le ceneri disperse. Al kapò che gli praticava l’iniezione, padre Kolbe disse: “Lei non ha capito nulla della vita. L’odio non serve a niente. Solo l’amore crea”.
Lo stesso amore che guiderà il poeta, oltre il male, a riveder le stelle.
Aldo Cazzullo ha il grande merito di aver riletto con la sua libera intelligenza l’Inferno e di aver trovato delle corrispondenze che raccontano dell’eterna giovinezza della Divina Commedia e di come Dante ci abbia dato non solo una lingua, ma l’idea di noi stessi.
Fiorenza Cirillo, 11 ottobre 2021