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A Washington, Salvini dovrà chiarire il pasticcio cinese

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Nel giorno in cui Matteo Salvini va a Washington, più che mai l’Italia è chiamata a chiarire (non solo agli Usa, ma soprattutto a sé stessa) il senso di uno svarione geopolitico compiuto dal governo un paio di mesi fa, e cioè la mega-intesa con il presidente cinese Xi Jinping. Della quale – intendiamoci bene – Salvini non ha responsabilità particolari: anzi, saggiamente, in quei giorni, si è tenuto alla larga dalle cerimonie ufficiali, arrivando a marcare un suo dissenso politico. Ma la frittata – intanto – era già stata fatta, anche con il contributo determinante di un sottosegretario considerato in quota leghista, Michele Geraci.

Nessuno impediva all’Italia di fare affari con la Cina (dalla Francia alla Germania, tutti fanno business con Pechino in modo robusto e sistematico): ma correre a siglare in mondovisione la nostra adesione al progetto cinese di Via della Seta è stato uno schiaffo geopolitico all’Amministrazione Trump. È come se il leader cinese, neanche troppo subliminalmente, avesse detto: “Caro Donald, sono entrato in casa dei tuoi amici, e ne sono divenuto l’ospite d’onore e il partner principale”.

Per carità, nessuno può disdegnare investimenti cinesi. Ma il punto è: il gioco vale la candela? Può essere utile una partecipazione cinese in un porto italiano se poi gli Usa decidono di tagliar fuori quel porto dai loro commerci? O – peggio – se arrivano a escluderci dal circuito delle informazioni sensibili sul piano militare e della sicurezza?

Per non dire delle tlc e del 5G, la nuova grande sfida delle comunicazioni, che non ha solo valenza commerciale, ma incarna la competizione geopolitica dei prossimi anni. Non si può stare un po’ di qua e un po’ di là, tra Washington e Pechino: occorre scegliere la metà campo in cui giocare, e per noi l’ambito naturale è quello occidentale e atlantico.

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