“El val pùssé cinq minut del Mariolino che on’ora de tut’i alter”, diceva lady Moratti in milanese stretto e non serve tradurre. Il Mariolino non aveva mica tanta voglia di sbattersi: “Participio passato del verbo correre” lo pungeva Gianni Brera il quale però lo rispettava, troppo consapevole che, di gente come Corso, uno in un secolo. Gli avversari in barriera non servono a niente: arriva caracollando, i calzettoni giù, studia la situazione: la palla s’impenna, destinata alle allodole ma stregata ricade come vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, come comanda, il Mariolino, dove il portiere neanche la vede. È la punizione a foglia morta e il Mariolino sembra uscito da una ispirazione del Prévert:
Assunto mio malgrado nella fabbrica delle idee/Mi sono rifiutato di timbrare il cartellino Mobilitato altresì nell’esercito delle idee/Ho disertato/Non ho mai capito granché/Non c’è mai granché/Né piccolo che/C’è altro./Altro/Vuol dire che amo chi mi piace/E ciò che faccio.
Corso il veronese era fatto così, amava a estro, giocava a estro, niente regole, tutto l’opposto delle regole, ciò che faceva immaginare a Pier Paolo Pasolini un maudit del pallone. Facile a dirsi, ma il Mariolino un dannato lo era davvero: nel 1962, a San Siro in amichevole contro una selezione cecoslovacca, l’ennesimo gol stratosferico; lui invece di esultare cerca il Ct della Nazionale, Giovanni Ferrari, che l’aveva escluso dai Mondiali in Cile, lo vede in tribuna e gli spara un “ombrello” deflagrante. Maglia azzurra che vola via, come una foglia morta senza ricaduta, spazzata dal vento della ribellione di quest’ala sinistra anomala, numero 11 ma solo per dire, che scende in campo a calzettoni sulle caviglie in adorazione del suo idolo, Omar Sivori; adorato, sì, ma quando se lo trova davanti non resiste a tunnellarlo, oltraggio per il quale un argentino dalla faccia sporca potrebbe anche ammazzarti.
Ma il Mariolino non ha paura di niente e di nessuno, pigro, indolente ma all’occorrenza carogna, nel 1971 prende a calci l’arbitro nella famosa partita della lattina contro il Borussia Monchengladbach. Questo sono io, prendere o lasciare. Mariolino veronese, con la vocetta chioccia e il faccino da Cirillino che non ha soggezione di nessuno: e perché dovrebbe faticare, se sa far correre il pallone? La sua eternità sta in questo ribaltamento della filosofia, sempre più correranno tutti come dei maledetti, fino ai livelli da videogames, da Ridolini d’oggi ma il gesto tecnico è scarso: lui, in un’amichevole col Santos, vede arrivare una palla a campanile: l’assorbe di collo pieno poi, senza toccar terra, la rilancia verso un compagno smarcato. Al che Pelè smette di giocare e comincia ad applaudirlo senza ritegno. Pelè. Mariolino sorride ma in fondo non gliene frega niente: che sarà mai? Mariolino con gli orrendi completi color mattone, le cravattone da cazzotto in un occhio, il tinello imbarazzante di ninnoli e cineserie – niente Instagram, all’epoca i servizi da rotocalco, ed erano più agghiaccianti che altro. La faccia dell’Italia più viva, carica di passioni e di follie, creativa, indomita, insolente, frenetica se occorre, scazzata quando è il caso. Malavitosa virtuosa. La faccia di un’epoca. Insieme a tanti, certo, ma lui era unico e non per dire.
Ombroso, insofferente, violento se occorre, oltre l’anarchia. Eppure nessuno ha saputo esprimere tanta gioia nel giocare a pallone, tanta esaltazione nel gesto. Foglie morte la palla, la vita, la gloria, foglie morte che s’impennano e ricadono. Corso muore oggi, “dopo ricovero in ospedale” e non se ne sa di più; ogni anno Herrera che lo vuol vendere, ogni anno Moratti che s’inventa la qualunque per tenerlo. Perché valgon più 5 minuti dei suoi che un’ora di tutti gli altri. Se non gira lui, l’Inter simpalla, se funziona non c’è scampo. Per nessuno. Meritava più d’un Pallone d’Oro, per la purezza assoluta della classe: non gliel’hanno mai dato, ma c’è da giurare che non gliene è mai fregato più di tanto. È stato, sicuro, tra gl’immensi di sempre ma non tutti se ne accorsero: a chi importa? Corso, timido sbruffone che ricordava un po’ Trinità, il disperato di Terence Hill, uno straccione veloce di pistola e di carte da poker. Perdere tutto pur di non perdere la libertà e il resto può andarsene aff…