In nome della proprietà è il secondo volume della Biblioteca della proprietà, la nuova collana promossa da Confedilizia presso l’editore Rubbettino. Curato da Sandro Scoppa, con postfazione di Corrado Sforza Fogliani, ospita contributi di Gianfranco Fabi, Andrea Giuricin, Carlo Lottieri, Roberta Adelaide Modugno, Paolo Pamini, Stratos Paradias, Alberto Scerbo, Alessandro Vitale. Il libro è ricco di riflessioni profonde, di brani di autori del passato, di opinioni nette, di aspirazioni ad ideali di libertà e di rispetto e tutela del diritto di proprietà.
La realtà, invece, è ben diversa. La realtà è fatta di continue minacce – a volte realizzate, a volte sventate – a un diritto che dovrebbe essere protetto più degli altri. Gli esempi, segnatamente per quel che concerne la proprietà immobiliare, sono numerosi e riguardano diversi profili.
Patrimoniali
Un piano è quello della fiscalità. Può dirsi realmente tutelato, il diritto di proprietà, in un Paese nel quale il valore dei beni immobili – in moltissimi casi privi di qualsiasi appetibilità sul mercato – viene progressivamente eroso da una tassazione sostanzialmente patrimoniale, come è quella costituita dall’Imu, che arriva a colpire persino i fabbricati inagibili o inabitabili?
L’equo canone
Un altro profilo è quello delle regole contrattuali riguardanti la locazione. La quotidianità porta ad abituarsi a tutto, ma occorrerebbe riflettere sulla circostanza che i contratti ad uso abitativo ordinari vengono definiti “liberi” per il solo fatto che il canone iniziale (si badi bene, solo quello iniziale) viene stabilito dalle parti in autonomia, senza interferenze da parte dello Stato. Del resto, fino al 1998 questa “libertà” non esisteva, vigendo dal 1978 (con una correzione nel 1992 attraverso i cosiddetti “patti in deroga”) la famigerata legge dell’equo canone, il cui nome dice tutto sia sui vincoli di allora sia sulle “libertà” di oggi.
Sempre a proposito di locazioni. È emblematico il caso di quelle commerciali, che a distanza di quarant’anni sono ancora regolate proprio dalla legge 392 del 1978 appena richiamata, i cui vincoli stridono in modo eclatante – non da oggi – con le dinamiche dell’economia, in continua evoluzione (si pensi solo all’impatto determinato sul commercio tradizionale dall’espandersi di quello elettronico).
È curioso, a questo proposito, leggere quanto riportato nella relazione di accompagnamento al decreto-legge che nel 2014 stabilì – limitatamente alle locazioni con canone annuo superiore a 250 mila euro (anche se il testo originario conteneva la cifra di 150 mila, poi incrementata in sede parlamentare) – di disciplinare pattiziamente i termini e le condizioni del rapporto, in deroga alla legge dell’equo canone, così “valorizzando pienamente l’autonomia privata”, diceva la stessa relazione.
“La disciplina in vigore – spiegava il documento governativo – risale per la gran parte alla originaria legge sull’equo canone (legge n. 392 del 1978) e, nonostante alcuni interventi di riforma, continua a presentare rilevanti elementi di rigidità che non hanno pari nei principali Paesi europei. L’evoluzione del sistema economico ha inoltre portato a constatare come le originarie esigenze di tutela, che vedevano aprioristicamente nel conduttore il «contraente debole», risultino largamente superate.