In un prezioso libricino di Aragno (Negli anni della crisi, Giovanni Agnelli Luigi Einaudi) c’è una bella chicca su disoccupazione e innovazione tecnologica che conviene rispolverare. Intanto il contesto.
Ci troviamo nel 1933. E il senatore Agnelli è preoccupato, consapevolmente, della gigantesca crisi economica che segue la Grande depressione e favorirà, sostengono alcuni, la guerra. Come sintetizza bene Nino Aragno nell’introduzione: le discussioni tra il presidente della Fiat ed Einaudi «partono dalle riflessioni del primo su riduzione dell’orario di lavoro e aumento dei salari»: ridurre ore di lavoro e aumentare proporzionalmente i salari. Agnelli giudica quella crisi diversa da quelle precedenti cicliche, «è una crisi che tocca tutta la struttura dell’economia mondiale e se la sua soluzione dovesse essere lasciata al naturale gioco delle forze economiche, dovremmo aspettare molto tempo e chissà attraverso quali cataclismi».
Pane per i denti di un liberale. Einaudi non è d’accordo. E in particolare contesta l’idea, molto di moda allora come oggi, che il progresso tecnico possa creare disoccupazione. Lo fa per di più in un mondo in crisi nera. Insomma una prospettiva in cui ci potremo trovare tra poco. Economie fiaccate dalla pandemia e dalle misure chiusuriste ed esplosione e accelerazione della rivoluzione digitale.
Sentite cosa scrive Einaudi: «Dio volesse che al mondo ci fosse solo quella varietà di disoccupazione la quale dicesi tecnica! Penso che darebbe pochi fastidi ad industriali e ad uomini di governo.
La disoccupazione tecnica non è una malattia; è una febbre di crescenza, un frutto di vigoria e di sanità. È una malattia, della quale non occorre che i medici si preoccupino gran fatto, perché essa si cura da sé. Gravi sono invece le altre specie di disoccupazione; gravi poiché nate dalla follia umana. Contro di esse non giova il rimedio della riduzione delle ore di lavoro; perché il rimedio tecnico non è adatto a guarire le malattie mentali. Noi altri industriali ed economisti dobbiamo farci da un lato e lasciare il passo ai veri competenti, ai sacerdoti di Dio, ai banditori di idee ed ai reggitori dei popoli.
Se costoro non sanno o non vogliono salvare gli uomini, che cosa possiamo fare noi produttori di beni materiali o commentatori delle azioni economiche degli uomini?».
Insomma le cause di disoccupazione tecnologica ci sono, per carità, ma non sono durature. Quelle gravi sono quelle prodotte dalle folli norme interventiste dell’uomo, che pretendono di accomodare ciò che sfasciano.
Nicola Porro, Il Giornale 28 marzo 2021