La recente sentenza del tribunale di Roma sui migranti trasferiti in Albania, quindi riportati al Cara di Bari, ha riaccesso le discussioni sul bilanciamento tra la tutela delle minoranze vulnerabili e le esigenze di sicurezza nazionale. E soprattutto ha scatenato l’ennesimo scontro tra politica e magistratura, con la prima convinta che le toghe più che applicare la legge finiscano con l’interpretarla con sentenze “abnormi” (cit: Nordio).
Ettore Manca, giudice di spicco del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa e presidente della seconda sezione del Tar di Lecce, intervistato dal Giornale, ha espresso una serie riserve circa l’interpretazione adottata dal tribunale di Roma. Il suo disaccordo si concentra sull’applicazione che sembra estendere il concetto di “paese di origine sicuro” oltre i criteri stabiliti dalla Corte Ue, mettendo in discussione la classificazione di certi Paesi come “non sicuri” sulla base di criteri che riguardano specifiche minoranze o gruppi sociali.
La critica principale di Manca si rivolge al modo in cui il tribunale di Roma ha interpretato i requisiti per definire un paese sicuro, includendo fattori che vanno oltre le considerazioni geografiche e abbracciando la condizione di gruppi particolari, come gli individui LGBTQI+ in Bangladesh e gli oppositori politici in Egitto. Questa interpretazione, secondo Manca, ha portato a una generalizzazione eccessiva che tralascia le valutazioni di rischio individuale e specifico dei migranti interessati.
Contrariamente a quanto stabilito dalla Corte Ue, che prevede che un paese non possa essere considerato sicuro se parti ‘geografiche’ significative di esso presentano rischi per la sicurezza, il tribunale di Roma sembra aver esteso questo principio in maniera tale da compromettere la valutazione oggettiva e caso per caso dei richiedenti asilo.
La Corte ue, ha spiegato Manca al Giornale, “è stata investita da un tribunale ceco con riguardo alla posizione di un cittadino moldavo che aveva chiesto asilo, rigettato dal ministero dell’interno di Praga in quanto la Moldavia è considerata un Paese d’origine sicuro, fatta eccezione per la regione della Transnistria, de facto indipendente e sotto influenza russa. E la Corte Ue, investita della questione, ha chiarito che se un Paese d’origine ha al suo interno porzioni territoriali che non sono sicure, quel Paese in toto non può essere considerato sicuro”. Il caso, però, non andava applicato ai migranti portati in Albania perché “per Egitto e Bangladesh” non c’è “un problema di parti del territorio non sicure, ma semmai di sicurezza per determinate categorie di persone: per esempio gli LGBTQI+ in Bangladesh e gli oppositori politici in Egitto”.
L’errore della giudice Albano, insomma, sarebbe stato quello di traslare “il ragionamento che la Corte del Lussemburgo aveva fatto per gli Stati parzialmente sicuri da un punto di vista geografico al punto di vista delle categorie di persone”. Un errore che fa ritenere alle toghe “vincolante” la sentenza sul caso della Repubblica Ceca, quando in realtà vincolante non lo sarebbe affatto “perché i casi portati al suo esame erano totalmente diversi da quello sul quale c’era stato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia”. Il Tribunale ha insomma stabilito che Bangladesh ed Egitto sono Stati “non sicuri”, affermando di fatto che “il Paese che discrimina i gay o i dissidenti diventa di per sé e automaticamente un Paese di origine non sicuro per qualsiasi richiedente asilo, a prescindere da una verifica della sussistenza di un’effettiva situazione di pericolo”.
Manca evidenzia come il ruolo di determinare la sicurezza di un paese dovrebbe primariamente appartenere al governo, con i giudici che dovrebbero operare entro i confini di tali politiche. La decisione del tribunale di Roma, quindi, segnerebbe una deviazione notevole da questo principio, stabilendo un precedente che potrebbe influenzare significativamente la gestione futura dei richiedenti asilo e le relazioni internazionali dell’Ue.