Altro che populismo politico, quello che ci perseguita si chiama populismo economico. E il suo mezzo di diffusione di massa principale sembra essere la televisione e la carta stampata: i media tradizionali tracciano la strada e questa volta la rete va a ruota, segue.
Ci sono un paio di casi concreti, che conviene citare, per capire di che cosa stiamo parlando. E sono entrambi riferiti al settore dell’alimentazione.
Il primo riguarda l’assurda battaglia contro l’olio di palma, talmente vincente che la maggior parte dei produttori (tranne la coraggiosa Ferrero) l’ha bandito dai suoi prodotti, quasi fosse un veleno, che non è.
Non si vede per quale motivo si debba rinunciare a un grasso che se ben lavorato, oltre alle sue qualità organolettiche, non ha nessuna conseguenza negativa sulla salute.
Non basta una campagna mediatica ben congegnata. Discorso identico riguarda gli zuccheri e le bevande gasate, che sono diventate la prossima frontiera del salutismo senza se e senza ma.
Persino la Coca Cola, inizia a prendere le distanze da se stessa, dal suo Dna zuccherino.
Bene ha fatto Centromarca, l’associazione che raggruppa i big del settore, a commissionare una ricerca all’osservatorio di Pavia, su come vengono trattati i prodotti «industriali» dotati di brand. Sono i medesimi analisti, per intenderci, che valutano la presenza dei politici in tv, durante le competizioni elettorali.
L’osservatorio è tranchant e da sostanza alla nostra intuizione. Sentite cosa scrivono: nelle televisioni «si ravvisa un pregiudizio nei confronti dell’industria», e ancora «la natura è sempre buona in sé e l’intervento trasformativo la corrompe».
In fondo è lo stesso filone antimodernista, per cui i vaccini sono pericolosi, la chimica fa male, e gli ogm sono da bandire. Più che il programma di un partito politico, questo è il substrato culturale dell’informazione mainstream.
«Le argomentazioni delle critiche avanzate al prodotto industriale, all’interno di un contesto predeterminato, sono molto spesso accompagnate da elementi di sussidio, che possono compromettere l’obiettivo di spiegare e informare, che rappresenta la mission di molti di questi programmi».
Insomma detta in parole povere gli autori televisivi disinformano con i loro pregiudizi.
L’osservatorio di Pavia conosce il suo mestiere e lo ha testato per anni sui confronti politici e sentite come sintetizza le tecniche della moderna disinfomatja:
1. presenza di musiche suggestive: sbeffeggianti o drammatiche quando si parla di industria; liriche e rassicuranti quando al centro vi sono contadini e artigiani.
2. associazioni di immagini: fumi, insetti, sporcizia per l’industria; igiene e colori della natura per gli altri.
3. accostamento impertinente di termini: chimica, veleni, cancro per l’industria; natura, salute, benefici per gli altri. E di eventi: incidenti, ma solo quelli industriali.
4. montaggio di interviste seguite da commenti: l’ultima parola, spesso una battuta dell’autore, annulla, rende vano se non ridicolo quanto detto dall’intervistato, se esponente dell’industria; si percepisce un diverso atteggiamento dell’intervistatore a seconda di chi rappresenta l’intervistato, meglio disposto quando l’interlocutore rappresenta una voce contro l’industria.
5. uso di stereotipi: grande, multinazionale=cattivo; piccolo, artigiano, contadino=buono; bio=qualita; chimica=inquinamento=cancro; naturale=salutare)».
Chi scrive ritiene che una delle forze di questo paese sia il saper fare, il gusto, la tradizione dei sapori e dell’artigianalità. Ma pensare di affermarli, negando i progressi della scienza è da folli.
Così come credere che la battaglia del made in Italy si possa combattere infangando le produzioni industriali, piuttosto che competere con loro sulla qualitá.
Nicola Porro, Il Giornale 13 maggio 2017