Rassegna Stampa del Cameo

Alitalia? Che fallisca

La nazionalizzazione della compagnia aerea di bandiera sarebbe solo l’ennesimo fallimento sia per l’azienda che per il Governo

Rassegna Stampa del Cameo

Da anni scrivo di Alitalia, negli ultimi 15 la storia di Alitalia si ripete ciclicamente. Diversi investitori e manager di varia estrazione (pubblici e privati, con esperienza nel trasporto aereo e no) e nonostante l’iniezione periodica di capitali o varie forme di sostegno pubblico (finora lo Stato ha gettato nella fornace Alitalia almeno 8 miliardi di euro, i politici attuali non lo dimentichino, perché i cittadini lo ricordano) non sono riusciti a riportare i conti in equilibrio e a rilanciare la compagnia. Anche prescindendo dai risultati economici, non si è neppure riusciti a far ritrovare all’azienda quel ruolo di prestigio che le era universalmente riconosciuto nei suoi anni d’oro, grossomodo prima della deregolamentazione del settore.

Le ragioni di tali periodici insuccessi sono state analizzate, negli anni, e discusse a fondo nel dibattito pubblico e fra gli addetti ai lavori (assenza di adeguati piani industriali, mancati investimenti sulle tratte a lungo raggio, ricavi unitari inferiori ai concorrenti, inefficienze nella gestione…). Non è stata però mai messa in discussione l’idea alla base delle diverse azioni intraprese: la ricostituzione di una “compagnia di bandiera”, sul modello di quelle presenti in altri stati europei, prevalentemente strutturata per servire i diversi segmenti della domanda interna per il breve o il lungo raggio, attraverso un modello operativo a rete (“hub and spoke”). Contemporaneamente, da un lato circola l’idea di Alitalia come vettore del Made in Italy nel mondo, dall’altro si riscontra la grande attrattività del nostro paese come destinazione turistica internazionale di fascia medio-alta. Non è però chiaro come questi due concetti si possano concretamente ricondurre alla nozione di “compagnia di bandiera” per definire un piano industriale coerente, visto che la maggioranza degli italiani e di coloro che vengono in Italia non viaggiano ormai più con Alitalia.

La sostenibilità economica di un modello di trasporto aereo a rete è legata a dimensioni operative ormai di svariate volte superiori a quelle di Alitalia (si pensi alle dimensioni dei principali vettori europei tradizionali, quali Lufthansa, Air France o British Airways). Difficile pensare che Alitalia possa competere su questo terreno reperendo sufficienti capitali attraverso gli azionisti di riferimento del momento, pubblici o privati, oppure sul mercato. Anche un’alleanza con uno dei vettori maggiori competitor su questo terreno, non può portare ad un modello di esercizio compatibile con l’idea di compagnia di bandiera o con il raggiungimento di obiettivi di interesse nazionale.

D’altra parte, l’Italia ha un forte potenziale attrattivo nei confronti di vasti settori del ceto medio e alto nei paesi emergenti, ma non sembra che sia disponibile sul mercato del trasporto aereo un prodotto specifico per questo segmento. Tutte le compagnie aeree tendono infatti a sviluppare un prodotto principalmente pensato per la clientela della nazione in cui sono radicate (a partire ad esempio dalla lingua a bordo, dai servizi offerti…), ragionano cioè soprattutto per servire la domanda di mobilità generata più che attratta nel territorio. Una compagnia aerea localizzata in un paese fortemente attrattivo potrebbe però per prima ribaltare questa prospettiva, focalizzandosi soprattutto sui flussi in ingresso, con un modello di business innovativo e finora non praticato dalla concorrenza.

Chi vuole conoscere la vera situazione di Alitalia si abbeveri alla fonte di Andrea Giuricin (Università Milano-Bicocca e Istituto Bruno Leoni). Su Alitalia, nell’autunno scorso, ho elaborato una business idea (sia chiaro un’idea di business non è né un progetto, né un piano, è un’idea, nulla più). Ritengo opportuno non parlarne in questa sede perché quest’idea si basa su un presupposto: lo Stato, esca dal business procedendo alla vendita degli asset secondo la modalità classica dello “spezzatino” per eventualmente rientrarci in parte (scenario Obama-Chrysler). Per uno sfilamento dello Stato da Alitalia questo potrebbe essere il momento buono, per la congiunzione astrale di svariati fenomeni politici.

Solo la Lega oggi potrebbe assumere una tal decisione, pur sapendo che andrebbe incontro a due rischi: 1. Il Governo cade; 2. Il Presidente della Repubblica, severo custode della Costituzione, potrebbe non indire nuove elezioni e Matteo Salvini si troverebbe in braghe di tela, a meno che abbia un piano B.

Ho fatto una mia indagine conoscitiva su un certo numero di elettori della Lega (quelli che l’hanno però votata solo alle europee), quindi che non appartengono al nocciolo duro del 17% del 2018% e che sono insofferenti degli ultimi atteggiamenti pubblici di Matteo Salvini (parla troppo, spesso a sproposito, con linguaggio verbale non appropriato e un linguaggio del corpo non idoneo). Sia chiaro, valore statistico di questa mia indagine: zero.

Ho provato a fare una sintesi: questi elettori si sentono innanzitutto cittadini e solo in un secondo momento viaggiatori aerei. Certo, vorrebbero e sarebbero orgogliosi che il nostro Paese avesse una compagnia di bandiera competitiva e ambasciatrice dell’italianità nel mondo, ma ora hanno mangiato la foglia e intuito che la nazionalizzazione di Alitalia sarebbe solo l’ennesimo cul-de-sac sia per l’azienda (che ormai manca della cultura necessaria al buon esito dell’operazione) sia per un Governo che sta rapidamente raggiungendo quella che in aeronautica si chiama «vite», ovverosia uno stallo asimmetrico in cui una semiala (i Cinquestelle) fornisce una portanza minore dell’altra (ed è un paradosso, dal momento che in Parlamento questi ultimi hanno numeri doppi della Lega).

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