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Alitalia, la solita storiaccia statalista

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Partiamo dalle cose serie, tasse e Alitalia e poi finalmente finiamo, in questa zuppa, su cose più facete, ma molto più divertenti: i party.

Alitalia, la solita storia

La storia di Alitalia è in fondo sempre la stessa. La compagnia sull’orlo del fallimento e alla fine arriva in qualche modo lo Stato a rimettere le cose in ordine. Corollario indispensabile il susseguirsi di manager che, con rare eccezioni, riescono a combinare poco, o come nel caso dell’ultima vicenda Ethiad, combinano davvero male. Siamo ora all’ennesimo punto di non ritorno. A differenza di altre situazioni, il governo non sembra ostile a mantenere una sua forte partecipazione nell’azienda che ritornerà di Stato, difficile di bandiera. Ma non basta. L’altro socio pubblico, e cioè le Ferrovie dello Stato, che oggi farebbe bene ad occuparsi della loro alta velocità Torino-Napoli, sempre più in ritardo, ha bisogno di soci privati di un certo peso. Atlantia nelle ultime ore, secondo la vulgata, avrebbe alzato la voce. Ma come, dicono gli azionisti di Aeroporti di Roma e Autostrade, volete i nostri soldi per Alitalia, ma poi ci considerati dei delinquenti a cui ritirare le concessioni? È chiaro che sono due piani diversi, ma chi non ragionerebbe come i Benetton oggi?

Eppure c’è un dettaglio che non è sfuggito agli operatori del settore. E cioè che l’altro socio, l’americana Delta, con questo impianto societario rischia di fare solo affari. Un po’ come fece Ethiad, senza pagare pegno. Secondo le indiscrezioni del settore, infatti, Delta si rifarebbe dell’investimento in Alitalia, senza fare praticamente nulla, in un paio d’anni. Da una parte per le percentuali che otterrebbe grazie alle rotte transatlantiche di Alitalia, e per un’altra cospicua parte grazie alla manutenzione (quella tosta, overall) che ha dei motori del vettore tricolore, e che vengono gestiti proprio nella farm di Delta. Insomma la sua partecipazione in Alitalia, ha solo il sapore di un piccolo investimento finanziario, il cui ritorno è assicurato quasi indipendentemente dall’andamento dei conti. Ecco perché Atlantia vorrebbe di più anche da loro.

Netflix e il metodo fiscale ambrosiano

Francesco Greco, il procuratore di Milano, ne ha combinata un’altra delle sue. Ha messo sotto i riflettori Netflix, con il medesimo sistema con cui lo ha fatto per molti giganti del web: fanno affari in Italia, ma non pagano a casa nostra le imposte. La procedura è sempre la stessa. Greco e una pattuglia di preparatissimi uomini dell’Agenzia delle entrate trovano un varco fiscale, si va all’accordo, la multinazionale paga, e ci si incammina verso un sentiero fiscale più virtuoso. È il metodo fiscale ambrosiano. Senza il miliardino scucito a Gucci, il governo Conte, nella prima versione, avrebbe dovuto penare di più per bloccare la procedura di infrazione.

Con Netflix difficile che le cose possano essere così succulente. La piattaforma, che non dichiara i suoi utenti italiani, secondo fonti molto qualificate avrebbe 2 milioni di abbonati per un importo medio di cento euro l’anno. Un giro di affari di duecento milioni e ancora non in utile. Insomma c’è molta meno polpa. Anche se l’Agenzia delle entrate non campa le sue pretese in aria ma su un Modello di Convenzione OCSE del 2017 e relativo al commercio elettronico. Da esso si evince che mentre un sito web, in quanto combinazione di software e dati elettronici, non possiede di per sé i requisiti per essere qualificato come stabile organizzazione, un server può configurare una stabile organizzazione per l’impresa che lo utilizza, in quanto parte di un’attrezzatura con una sua localizzazione fisica ben determinata.

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