Nella giornata del 1° maggio, Festa del Lavoro, il governo ha approvato il cosiddetto decreto Lavoro. Un decreto-legge preceduto da un voto del Parlamento sullo scostamento di bilancio. In buona sostanza il governo cerca di far fronte al problema del rincaro dei prezzi attraverso il taglio del cuneo fiscale, facendo trovare in busta paga ai lavoratori un po’ di soldi in più a fine mese.
La misura riguarda i redditi medio-bassi. Per chi percepisce una retribuzione lorda fino a 25.000 euro l’anno l’aumento sarà di circa 96 euro mensili, 99 per chi guadagna fino a 35.000. In buona sostanza denaro che serve a far fronte al caro vita. Una misura provvisoria, da luglio a dicembre, che probabilmente verrà rinnovata anche per il 2024 con la legge di bilancio. L’aumento effettivo in busta paga sarà però di circa 50 euro mensili, che vanno ad aggiungersi al taglio del cuneo già avvenuto con la legge di bilancio approvata a dicembre. In totale poco meno di cento euro in più al mese. Un provvedimento che tanto somiglia agli 80 euro di Renzi.
Altra misura adottata dal Consiglio dei ministri è l’introduzione, a partire dal 1° gennaio 2024, dell’assegno per l’inclusione, che sostituirà il reddito di cittadinanza. L’assegno verrà erogato ai nuclei familiari che presentano al loro interno almeno un minorenne, disabile o persona di età superiore ai 60 anni. L’importo, che verrà erogato per un periodo di 18 mesi più rinnovo (dopo un mese di sospensione, per altri 12 mesi), oscillerà tra i 480 e i 500 euro mensili, più 280 euro per coloro che pagano un canone di locazione ad uso abitativo. In pratica i vecchi 780 euro del rdc, ma non per stare sul divano a fare niente ma solo nei confronti di chi è davvero in difficoltà. Per quanto riguarda i requisiti di accesso occorrerà avere un Isee non superiore a 9.360 euro annui.
Il governo, questo occorre dirlo, la sua parte l’ha fatta. Poteva fare di più? Crediamo di sì, ma la coperta è corta e l’esecutivo è dovuto comunque ricorrere allo scostamento di bilancio (complessivamente circa 7,4 miliardi di euro). Ci incuriosisce l’opposizione del sindacato con in testa il leader della Cgil Maurizio Landini, che ha parlato di “toppe” e di governo senza strategia: “Se vogliamo dare un futuro al nostro Paese e all’Europa bisogna avere un progetto, una strategia. E questo non sta avvenendo. Oggi la nostra è una Repubblica fondata sullo sfruttamento, sulla precarietà e la povertà. C’è bisogno di fare una battaglia”. Strano che queste parole così dure il signor Landini non le abbia rivolte a Conte (quando presiedeva il governo giallo-rosso) o a Draghi, che tagli così importanti al cuneo fiscale non ne hanno mai fatti. Ora c’è un governo di centrodestra che aumenta i salari di circa 96 euro al mese e la Cgil protesta. Davvero incredibile.
Se davvero il sindacato facesse il suo lavoro, farebbe come quelli tedeschi e francesi. In Germania due giorni di blocco delle ferrovie e 8% di aumento dei salari, la Francia invece è bloccata da mesi per la riforma pensionistica voluta da Macron. Qui da noi i sindacati accarezzano Monti, Conte e Draghi, che il cuneo fiscale non lo hanno mai ridotto, e attaccano l’attuale governo che ha rimesso un po’ di soldi in più nelle tasche dei lavoratori. Lo aveva fatto anche Renzi con gli 80 euro e attaccarono anche Renzi.
Se Landini pensasse meno al pericolo fascista in assenza di fascismo, e facesse davvero gli interessi dei lavoratori, plaudirebbe il decreto Lavoro e chiederebbe con insistenza a Meloni e Giorgetti l’adeguamento dei salari alla media europea. E invece niente. Scioperi ogni quindici giorni delle metropolitane delle grandi città, quasi sempre di venerdì per profittare del fine settimana, e attacco ai fantasmi di un fascismo che non esiste più. Abbiamo anche sentito parlare di pericolo per la democrazia. Peccato che quando il Pd votò per il fiscal compact e il pareggio di bilancio in Costituzione, che sono i nemici giurati del taglio al cuneo fiscale, tutte le sigle sindacali stettero zitte. Oggi invece protestano contro l’aumento dei salari. Ora la palla passa alle Camere che dovranno, con o senza modifiche, convertire in legge il decreto-legge entro sessanta giorni.
Paolo Becchi e Giuseppe Palma, 5 maggio 2023