Scrivendo di Carola Rackete—la tedesca che ha sostituito la svedese Greta Thunberg nel cuore dei buonisti laici e cattolici—qualche giornale conservatore ha parlato del suo impegno ambientalista in termini neppure velatamente ironici. “Una così non può che battersi per la salvaguardia dell’ecosistema e la protezione delle piante, degli animali, delle acque!”, era il sottinteso. Ho trovato, francamente, l’ironia fuori luogo, anche se fatta da giornalisti che stimo molto. L’ecologia, infatti, è una delle questioni, se non la questione, cruciali del nostro tempo e coltivarne la passione non ha nulla di stravagante. Racconta Tocqueville, nei suoi Ricordi, che alla Camera Louis Auguste Blanqui (fratello peraltro del suo amico economista Adolphe Jerome) gli fece una sensazione sgradevolissima:” sembrava fosse vissuto in una fogna e ne fosse appena uscito”. In realtà tutti gli esponenti della rivoluzione sociale—da Armand Barbès a Joseph Sobrier—gli ispiravano la stessa ripulsa: “Ho sempre pensato che nelle rivoluzioni democratiche i pazzi—non quelli ai quali si dà questo nome metaforicamente—ma quelli veri—hanno avuto una parte politica assai notevole”. Non voglio certo mettere la Rackete e la Thunberg sullo stesso piano degli esagitati che Ulysses Trèlat, “un rivoluzionario sentimentale”, casualmente incontrato da Tocqueville, avrebbe voluto rinchiudere alla Salpetrière, ma ho ricordato l’episodio solo per dire che, allora come oggi, sarebbe stato un errore gravissimo avvalersi del fanatismo fondamentalista per ignorare la gravità dei problemi che esso poneva all’opinione pubblica. Al tempo di Tocqueville, la “questione sociale” si avviava a diventare il terreno di scontro e di sfida tra i partiti politici e se, come per la “questione ambientale” del nostro tempo, tra quanti si apprestavano ad affrontarla, non mancavano i nemici della “modernità” ciò non impedì a uomini pensosi, educati alla scuola dell’Illuminismo, di cimentarsi con la sfida del secolo.
Un brillante e documentato studioso, seguace di Murray Rothbard, Novello Papafava, nel saggio di una decina di anni fa, Proprietari di sé e della natura. Un’introduzione all’ecologia liberale (Ed. Liberilibri) –ma in realtà, si trattava di un’introduzione all’ecologia libertaria—mise in guardia i moderati dal sottovalutare la posta in gioco nell’odierno dibattito sull’ambiente. Dopo aver stigmatizzato il fondamentalismo verde, scriveva nella premessa: “Vi è un altro atteggiamento che criticheremo, tipico di alcuni conservatori, non dei liberali. La loro reazione davanti alle questioni ambientali è spesso pregiudizialmente favorevole all’industria. Essi sottovalutano o minimizzano il problema, e attribuiscono la colpa dello stato di allarmismo attuale alle “sinistre”, ostili al mercato e alla tecnologia in nome di una forma primitiva di socialismo. Tali accuse sono in parte fondate ma, ignorando del tutto la crisi ecologica, negano l’evidenza scientifica. Inoltre, sottovalutare l’inquinamento non difende affatto il mercato, che si fonda sulla protezione dei diritti di proprietà. Al contrario, è il modo con cui i conservatori danno il loro benestare a quegli industriali che oltraggiano le proprietà dei cittadini”.
Tornerò in seguito sul libro. Ora mi limito a rilevare la sensazione di disagio provata nel leggere, alcuni giorni fa, su Atlantico—il quotidiano on line di Daniele Capezzone, al quale collaboro anch’io — l’articolo di un’attenta e seria ricercatrice, Anna Bono, Una petizione’controcorrente’ sul clima:scenari apocalittici infondati (e pericolosi) e congetture spacciate per verità scientifiche. Ne trascrivo l’incipit: “I cambiamenti climatici si verificano da sempre, non è l’uomo a determinarli. A dirlo non è una voce ‘fuori dal coro’, ma un coro di voci: quasi un centinaio di scienziati, tra i quali Antonino Zichichi, Franco Battaglia e Franco Prodi, che di recente hanno indirizzato ai politici italiani una lettera intitolata ‘Clima, una petizione controcorrente’. Non è vero che i cambiamenti climatici attuali sono al 99 per cento di origine antropica – spiegano nella lettera – e non è vero che ad affermarlo sia il 97 per cento degli scienziati mondiali.”
Leggendo l’articolo mi è venuto in mente il manzoniano don Ferrante, confortato dal pensiero che la peste non poteva essere né sostanza, né accidente : “la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, foruncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano.” Appunto: “Tutto sta a veder di dove vengano”.
Si ha l’impressione che, per molti, se l’inquinamento delle nostre metropoli, la desertificazione, lo scioglimento dei ghiacciai non hanno cause antropiche—se non in minima parte—ma vanno legate, che so, ai cicli solari, si è autorizzati a mettere da parte l’ecologia, a non considerare la tutela del territorio una priorità per tutti i paesi della terra, a condannare gli allarmismi ingiustificati, e a fare il processo a quanti cianciano di “decrescita felice” (oggettivamente un esempio di ‘matta bestialitade’).
Per fortuna, nell’ambito della destra (ma il termine è improprio giacché il nocciolo duro della destra è l’anticapitalismo, reazionario finché si vuole ma sicuramente estraneo alle ‘magnifiche sorti e progressive’ promesse dalle ‘benedizioni della modernità’ e dal mercato) si va consolidando una corrente di pensiero che prende molto sul serio la “questione ecologica”. I suoi esponenti—in Italia, oltre a Novello Papafava, penso a studiosi come Carlo Lottieri o (soprattutto) Guglielmo Piombini—, a differenza dei pasdaran dei vari ecoistituti, non figurano mai nei convegni dedicati all’ambiente, né nelle trasmissioni televisive in cui si denunciano le criminali manipolazioni della natura e quando (raramente) vengono citati è solo per i dubbi che manifestano sulle cause antropiche del “riscaldamento globale” (dubbi legittimi giacché la comunità degli scienziati è fortemente divisa al riguardo e apocalittici, come il consigliere di Al Gore, che oggi gettano l’allarme sul riscaldamento, vent’anni fa terrorizzavano sul raffreddamento) ma non per le loro analisi sulle cause sociali e politiche del degrado ambientale e per le strategie proposte per farvi fronte.
Non sono un libertario, né tanto meno, un anarcocapitalista, ma credo che questa scuola ecologica alternativa vada presa in serie considerazione dal “pensiero egemone”. La sua tesi che la privatizzazione di mari, fiumi, foreste, montagne, deserti, campagne potrebbe essere la risoluzione dei nostri problemi– giacché nessun proprietario sarebbe indifferente all’invasione, all’inquinamento, ai danni provocati al suo bene da altri (privati, stati, aziende..)–mi lascia perplesso ma l’enfasi sulla proprietà privata come architrave della società aperta mi sembra ineccepibile specie in un’epoca, come la nostra, in cui tale istituto viene riconosciuto dalle costituzioni “avanzate” solo per la sua “funzione sociale” (stabilita poi da chi?). Un tempo, scrive Papafava, per quanto singolare possa sembrare, il diritto di proprietà sull’aria veniva fatto rispettare. Molti degli effetti pericolosi dei fumi si conoscono dai tempi della rivoluzione industriale. Nei primi anni del XIX secolo, sia nei paesi anglosassoni di common law, sia in quelli europei di diritto codificato, qualsiasi inquinamento atmosferico veniva considerato un atto illecito, una forma di “immissione molesta” per la quale la vittima poteva chiedere un risarcimento e un’ingiunzione che fermasse ogni ulteriore invasione. Esisteva, dunque, un modo per costringere gli attori economici, fabbriche e fonderie, a sostenere tutti i “costi sociali” delle loro operazioni: citarli in giudizio, far pagare loro i danni alla persona o alla proprietà di altri, e ottenere una sentenza da parte del tribunale che proibisse tali invasioni per il futuro. Si noti che il rimedio per l’inquinamento dell’aria non era la creazione di un ufficio statale che prescrivesse una pletora di regolamenti e standard sulla qualità dell’aria. Nei decenni successivi, tuttavia, i tribunali e i parlamenti modificarono sistematicamente il concetto giuridico di immissione molesta, al fine di permettere gli inquinamenti dell’atmosfera che non fossero troppo vistosi.
Il primato dell’interesse pubblico su quello privato ha fatto registrare l’ennesimo caso degli “effetti perversi dell’azione sociale”: si è violato il diritto di proprietà e non si sono raggiunti i fini collettivi che si volevano. E’ vero che le aziende inquinanti—la cui attività è stato ritenuta dai tribunali socialmente degna di tutele—vengono tassate ma, come osserva con sarcasmo Papafava,”tassare gli inquinatori è tanto ragionevole quanto tassare i ladri per scoraggiarli a rubare. Inoltre i fondi raccolti vanno allo Stati e non risarciscono le vittime”.
In linea di principio, privatizzare i “beni collettivi” potrebbe significare eliminare gli enormi sprechi che la loro gestione pubblica comporta: un solo esempio relativo a un caso recente, i quattordici custodi assenteisti dei parchi pubblici di Napoli sarebbero ancora nel libro paga di un imprenditore proprietario di quei giardini? La stessa privatizzazione delle acque, è stato calcolato, comporterebbe un risparmio del 40% di un bene divenuto sempre più prezioso. Non ha tutti i torti Papafava quando osserva che è “del tutto infondato il timore che, senza una supervisione politica, dove oggi ci sono parchi e giardini sorgerebbero solo case e parcheggi. Nel mercato in realtà si cerca di soddisfare le domande degli acquirenti e se questi, come probabile, richiedono spazi verdi, aria pura e acqua pulita, imprenditori desiderosi di profitto glieli forniscono”.
Sennonché, il limite profondo di questa scuola rothbardiana non sta nel rispetto assoluto che esige per la proprietà privata (in polemica con la Scuola di Chicago) ma nella cancellazione—che l’accomuna alla detestata sinistra europeista e universalista—della dimensione politica dal mondo umano, a vantaggio della dimensione economica (il mercato) e di quella giuridica (il diritto di proprietà). Di qui la distanza dal vecchio Luigi Einaudi, un liberale consapevole che il mercato di Dogliani funzionava grazie al pennacchio dei carabinieri, ai tribunali, all’apparato statale garante dell’ordine e della correttezza delle transazioni. Quando Papafava scrive che “nel mercato, l’armonia degli interessi rimpiazza il conflitto politico” o che “lo sviluppo commerciale è un gioco a somma positiva, non a somma zero” giacché “nel mercato entrambe le parti di una transazione si avvantaggiano” pare che abbia in mente non uomini in carne ed ossa, situati in un ambiente storico e naturale determinato, educati da istituzioni secolari ma un’astrazione: quell’homo oeconomicus che esiste solo nella mente dei teorici puri (v. le acute analisi di Ralph Dahrendorf).
E’ la proprietà privata che ha fatto grande l’Occidente ma ad averla garantita istituzionalmente è lo stato moderno, un prodotto complesso dell’ingegno umano, che non può essere ridotto a un dispendioso apparato burocratico, quale è diventato oggi con l’allargamento inevitabile della sua base sociale.
Dino Cofrancesco, Il Dubbio 20 luglio 2019