Lo diceva Leonardo Sciascia: “Prima li chiacchierano, e poi vanno in giro a dire che son chiacchierati”. Prima si creano le condizioni per cui la concorrenza non ci sia e il mercato non riesca a funzionare, e poi si invocano le lacune del mercato per giustificare gli interventi dello stato, tassando e redistribuendo i soldi degli altri. Statalismo, oligopolio e monopolio determinano distorsioni nel mercato, limitando o annullando la concorrenza e con essa la libertà dei consumatori di potersi difendere con l’unica vera arma che può ridurre i prezzi e i profitti generati da posizioni dominanti: cambiare fornitore.
Scriveva Sergio Ricossa già nel 1972: “Nonostante gli orrori dello statalismo, la cultura ufficiale si ostina a voler indicare il profitto come causa di tutti i mali. Non ammette che in un mercato di concorrenza libera e leale il profitto possa essere il voto che i consumatori danno ai produttori. Sylos Labini: – oggi ben pochi sono gli economisti che credono nella sovranità dei consumatori -. È una notizia da comunicare con urgenza a quegli industriali, che continuano a spendere miliardi nelle ricerche di mercato, per sapere che cosa preferiscono i consumatori: e a quegli altri industriali, che per non averle fatte stanno fallendo”. – Come si manda in rovina un paese – Rizzoli 1995.
Qualche anno dopo (1989) di nuovo ammoniva circa le continue distorsioni che il mercato subiva, più o meno evidenti. Cambiando qualche nome e ragionando sulla situazione attuale di molti settori, queste parole suonano adeguate all’Italia di sempre: “Quanto meno Costa sapeva che il “fallimento” del mercato di concorrenza è spesso dovuto al fatto che la concorrenza non c’è. Troppi lo dimenticano. Chi ha sentito parlare dell’accordo Multifibre, che ci rincara tutti i generi di abbigliamento? Chi sa quante automobili giapponesi possiamo importare al massimo? Chi si rende conto del grado di pazzia che ha raggiunto la protezione dell’agricoltura europea?. [Ibid]
Nella sua fondamentale opera scientifica dal titolo Teoria unificata del valore economico (Giappichelli-1981) , Ricossa ha ampiamente trattato la teoria del valore (argomento su cui torneremo nei prossimi articoli), chiarendo anche la funzione del profitto e la sua relazione con il fattore tempo nelle anticipazioni di capitale: “Lungi dall’essere una categoria del capitalismo “borghese”, il profitto è una categoria universale, sebbene possono cambiare da un sistema economico all’altro la sua misura, la sua funzione, la sua destinazione. Il profitto è una categoria universale, non il capitalismo: al capitalismo si possono rivolgere molte critiche, ma non quella di calcolare il profitto, che anzi è una sua virtù”.
Il profitto è necessario e sacrosanto, ma la sua misura e il suo controllo sono un altro discorso. Perché “la concorrenza è uguale per tutti ma soprattutto per qualcuno”, come la legge. Di fronte a barriere in entrata, a cartelli oligopolistici, a interi settori corporativi tutelati e non sottoposti a concorrenza si capisce che il consumatore/cliente non riesca a difendersi: può scegliere e cambiare tra mille fruttivendoli e mille idraulici o altro, ma non può rivolgersi a mille compagnie telefoniche, o ferroviarie, o elettriche, o bancarie, o automobilistiche, etc etc etc .
In assenza di concorrenza, compresa quella internazionale, si generano sistemi autarchici o cartelli oligopolistici per interi settori, all’interno dei quali gli imprenditori che li compongono si muovono quasi indisturbati, dettando le condizioni: “È il caso di citare Adam Smith: – I nostri mercanti e i nostri industriali si lamentano molto dei cattivi effetti degli alti salari nell’elevare il prezzo dei loro prodotti…, ma non dicono nulla dei cattivi effetti degli alti profitti: essi tacciono sugli effetti perniciosi dei guadagni propri; si lamentano soltanto dei guadagni altrui -. Quando pongo ai miei studenti l’indovinello se il brano è di Smith o di Marx, la risposta più frequente è Marx”.[Ibid]
Se non c’è concorrenza, l’oligopolio fa cartello e cerca di fare quello che vuole, i prezzi che vuole. Ci sarebbero le istituzioni preposte a garantire la concorrenza, per tutelare con ciò i consumatori. Ma pare che servano a poco e siano comunque meno efficaci rispetto all’azione della concorrenza stessa. Scriveva Ricossa nel 1990: “Anche in America, dove c’è più esperienza, le leggi antitrust servono a poco. L’IBM non è tenuta al guinzaglio da una commissione antitrust, ma da Apple, Compaq, Toshiba, Dell e altre imprese emergenti (fra le quali. Temo, la Olivetti non ha posto). [Ibid] (Notare la preveggenza del professore: oggi conosciamo il cammino che poi fecero, ad esempio, Apple e Compaq, e anche quello della Olivetti).
Interessante è sapere che quando l’autorità antitrust venne istituita in Italia, partì subito “all’italiana”, facendo “figli e figliastri”, cosa che naturalmente non sfuggì a Ricossa: “La legge che istituisce l’autorità garante della concorrenza e del mercato sottrae a questa autorità il settore del credito, quello dell’editoria e quello della radio e della televisione. Mi ricordo che già al ministero delle Partecipazioni statali non venne dato il controllo delle banche dell’Iri. Sospetto che le eccezioni tradiscano la voglia politica di sottrarre almeno in parte al mercato e alla concorrenza le banche, appunto, e i periodici, la radio e la televisione. Controllori diversi vuol dire criteri diversi”.[Ibid]
I governi si preoccupino di creare le condizioni per una concorrenza la più estesa e corretta possibile, smascherando chi la distorce con cartelli e pratiche truffaldine; di togliere i bastoni tra le ruote al mercato, invece di aggiungerne. Non si occupino di stabilire quale sia il profitto giusto e quello sbagliato, per tassare poi “gli sbagliati” retroattivamente.
Fabrizio Bonali, 10 agosto 2023