Cronaca

Amore a pagamento… per finanziare il porto di Genova

Una targa per ricordare la tassa sulle prostitute che consentì alla Repubblica di costruire moli e banchine

© RnDmS e PIRO4D tramite Canva.com

“Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi…” In molti ricorderanno l’incipit di una delle più struggenti canzoni di Fabrizio De Andrè, quella “La città vecchia” che squarciava il velo di umidità e di umanità che copriva i “caruggi”, i vicoli e i bassi del centro storico di Genova e quelle strade in cui la prostituzione era la regola e la ragione di vita.

Ma proprio dietro quelle che venivano chiamate donne di malaffare, si cela una storia più antica e a molti sconosciuta e un ruolo che il Comune di Genova, dopo paradossali dibattiti para-etici protrattisi per oltre sette anni, ha voluto riconoscere a tante donne senza volto: non quello di soddisfare – come cantava De Andrè – le voglie di un vecchio professore pronto scialacquare il suo stipendio, ma udite udite, quello di finanziare moli e banchine del porto di Genova.

Una tassa di scopo da 5 soldi per la fabbrica dei moli

Giustamente il quotidiano di Genova, Il Secolo XIX, ridando linfa alle sue radici più autentiche di giornale della gente, dedica oggi mezza pagina alla decisione del Comune di Genova di affiggere una targa, in quei portici di Sottoripa, dove un tempo il mare spingeva i velieri a ormeggiarsi e scaricare direttamente il carico attraverso strane finestre a mezza luna, la cui funzione di “accesso ai magazzini delle merci” è tutt’oggi sconosciuta ai turisti e forse a gran parte dei genovesi che attraversano piazza Caricamento per raggiungere l’area del porto antico e dell’Acquario.

“Fra il XIV e il XV secolo – si leggerà nella targa – a Genova le prostitute potevano esercitare la loro professione versando 5 soldi alla Repubblica. Con i proventi di questa gabella la Repubblica finanziò importanti opere monumentali e fra queste la costruzione e l’ampliamento della fabbrica dei moli, area del porti in cui a queste donne era proibito entrare. E da qui nasce un famoso detto popolare genovese usato per sottolineare un evento straordinario”.

Ma alle donne di malaffare il porto era vietato

Detto che questa targa significativamente sarà posta difronte a Palazzo San Giorgio, sede della Banca dei potenti della città, prigione di Marco Polo, casa dei trionfi della Repubblica marinara al cui interno ancora vegliano le statue dei rappresentanti delle grandi famiglie e azionisti del superpotere economico e finanziario della Repubblica, è indispensabile soffermarsi su quel detto popolare citato nella targa, che i vecchi genovesi ben conoscono. “A l’è cheita ‘na bagascia in ma’”, testualmente “E’ caduta una prostituta in mare” cosa che non sarebbe mai potuta accadere proprio perché alle bagascie, cantate da De Andrè in Via del Campo, Bocca di Rosa e tante delle sue indimenticabili poesie, non era concesso di entrare in porto per non distrarre i “camalli” altro termine genovese di chiara origine araba che contraddistingue gli scaricatori del porto e i marinai, impegnati (almeno sino al prossimo tramonto del sole) a far funzionare moli e banchine e garantire un buon servizio alle navi.

Nella città che non perdonava i falliti

La targa pensata anche da quella Associazione Princesa vicina a Don Gallo per dare voce a quelle donne che tutt’oggi voce non hanno, dovrebbe essere significativamente affissa il 20 settembre, data dell’entrata in vigore di quella Legge Merlin che nei caruggi della Città vecchia continua a valere meno della carta oleata per fasciare la focaccia. Ma la targa serve, eccome. Forse di quella Genova del Siglo de oro, varrebbe la pena di ricordare le invenzioni finanziarie, come la cedolare secca o la prima cambiale, ma anche la dura repressione dei reati finanziari: ai falliti venivano sequestrati tutti i beni, distrutta la casa di famiglia, comminato l’obbligo di circolare vita natural durante con un cappellino rosso sulla testa che li rendesse riconoscibili. E per sovrappiù le guardie della Repubblica per le festività comandate potevano sequestrarli per 24 ore e imporre loro la punizione del “culo in ciappa”: con pantaloni e mutande calate,  farli sbattere dall’alto su lastre di marmo (le ciappe) collocate in punti strategici della città vecchia, per esporli una volta di più anche ludibrio del popolo, che, quando erano potenti finanzieri, loro avevano deriso e disprezzato.

Il 20 settembre, una parte di quel popolo, le bagasce, viene riabilitata grazie, neanche a dirlo, di una tassa…di scopo.

Bruno Dardani, 8 settembre 2024

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