Sabato scorso abbiamo data la nostra piena solidarietà alla Cgil per l’assalto, non arginato dalle forze dell’ordine, alla sua sede. Ora ci siamo resi conto che la Cgil non si è mostrata all’altezza di quella solidarietà. È nel suo Dna, non c’è nulla da fare. Ovvero, in quella che è diventata ultimamente, diciamo negli anni seguenti alla coraggiosa segreteria di Luciano Lama. Che il maggiore sindacato italiano sia stato sempre una “cinghia di trasmissione” del Partito Comunista, e che questo ne abbia segnato la storia rendendolo assai diverso dai sindacati meramente rivendicativi di migliori condizioni salariali, come quelli americani, o anche da quelli riformisti propri del modello socialdemocratico europeo, è risaputo. Non si può però dimenticare che quel sindacato seppe rispondere anche, oltre all’ideologia, ad una generale esigenza di elevamento, non solo sociale ma anche culturale e civile, della classe operaia. Oggi che il lavoro si è frantumato in mille rivoli di lavori precari e malpagati, che la società si è sempre più atomizzata e individualizzata, il sindacato stesso si è trasformato in una lobby a difesa corporativa di pensionati e ceti garantiti, cioè non dei nuovi deboli, che pure ci sono e sono tanti, ma dei nuovi forti.
L’assist della Cgil a Gualtieri
Lo stesso partito della sinistra, d’altronde, non ha più i ceti sociali di un tempo come riferimento e trova la propria identità o in battaglie in difesa di minoranze a contenuto meramente simbolico o nella delegittimazione morale degli avversari considerati in blocco fascisti pur essendo il fascismo morto e sepolto da un bel pezzo. In questa situazione, il riflesso pavloviano di approfittare dell’atto delinquenziale dei soliti e ben noti quattro neofascisti quattro che girovagano per le nostre piazze è stato più forte di quella sobrietà o gravitas che il momento avrebbe richiesto. Scendere in piazza e con il pugno chiuso in nome di un feticcio inesistente, in una sorta di coazione a ripetere riti e simboli ormai fuori tempo e quindi vuoti di significato, è stata la logica conseguenza. E farlo alla vigilia di una giornata elettorale che chiude una campagna elettorale che sulla delegittimazione truffaldina dell’avversario era stata sin dall’inizio costruita non è stata altro che l’occasione ghiotta e insperata che la realtà ha presentato alla sinistra (ovviamente Roberto Gualtieri era in piazza tutto pieno di sé).
La piazza coi pugni chiusi
Pretendere poi, come ha fatto Maurizio Landini dal palco della manifestazione romana, di avere organizzato un evento non di parte ove invece in piazza si vedevano solo pugni chiusi, bandiere rosse e i leader del Pd e dei Cinque Stelle, è sembrata a tutti, ed era, la solita tracotanza ipocrita di una parte, i rossi, che pretendono da sempre di parlare per il tutto. Fatto sta che la realtà a volte è beffarda e proprio nel giorno della manifestazione antifascista, quando appunto il sindacato dei lavoratori rincorreva i fantasmi del passato, due operai morivano sul lavoro in Toscana e in Abruzzo e altri restavano gravemente feriti in altre parti d’Italia, in una strage continua che è, essa sì, una vera emergenza. Quasi a voler marcare la distanza fra i luoghi ove il sindacato dovrebbe essere e quelli ove oggi effettivamente è.
Un’ultima notazione a latere: insieme a Letta e a Gualtieri, a Roma si sono visti in corteo anche Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, per un giorno uniti nella stessa battaglia. Purtroppo, la battaglia sbagliata, quella che ha marcato anche visivamente il “tradimento” grillino non dei propri valori originari (quelli più che valori erano demagogiche velleità) ma certamente dei ceti che intendeva rappresentare. E che, per buona parte, erano i nuovi deboli dei mille lavori precari della società post-fordista.
Corrado Ocone, 16 ottobre 2021