Angelina Mango e quello strano “mal di vivere” delle popstar

L’annuncio della cantante sullo stop, come lei anche altri in preda all’ansia di “celebrità”

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Angelina Mango concerto

Fermi tutti! (un tempo si sarebbe urlato: “Fermate le rotative!”) È scoppiata l’apocalisse. Che è? Si è scoperto che Kamala Harris è un uomo? L’ayatollah Khamenei sorpreso a passeggiare sui tacchi a spillo come i due di Ancona? La Baronessa Siringa, convertita all’omeopatia, e gira al volante di un diesel puzzolente del 1995? Il politico di laboratorio Giuseppi Conte si è fatto scappare una verità? Scoperti a casa di Burioni 126 kg di dosi di fisiologica spacciata per vaccino?

Macché! La realtà è assai più tragica: Angelina Mango non sta bene. “Devo pensare a me”. Logora di precoce successo, tradisce misteriosi disagi: “D’accordo col mio staff, ho deciso che non posso continuare coi concerti per ora”. Lo staff sarebbe la sovrastruttura che tutto decide, anche i malesseri. Auguri alla giovane promessa, però è inquietante questa epidemia di disagio sempre lasciato nel vago, nel fumoso, «Devo fermarmi perché voglio prendermi cura di me mettendo la salute al primo posto e perché voglio essere non solo la mia voce ma anche quella di tutti voi. Per questo ho deciso che per ora non posso continuare i miei live. Vi amo tantissimo e vi ringrazio già per l’affetto che so che riceverò in questi giorni».

Angelina si ferma e lo fa coi toni ieratici della popstar globale: a prescindere da cosa cova sul serio, si spera niente di serio, la sovrastruttura sa come elaborare la profezia che si autoadempie: io vi dico che sono una star e voi credeteci – “Vi amo tutti!”. E cosa di meglio (ci limitiamo ad una analisi generale, all’ennesima mutazione antropologica) che scatenare l’identificazione nel male di vivere? Ma è un gioco pericoloso per più che evidenti motivi, perché la depressione, reale o millantata che sia, è contagiosa come lo sono le suggestioni. Questo business non nasce oggi ma è col grunge degli anni Novanta che diventa costitutivo del successo, elemento imprescindibile. Con la differenza che quelli morivano davvero per quel mix di autodistruzione che dura fin quasi ai nostri giorni, ultima degna di nota la Amy Winehouse.

Oggi si tira il freno, saggiamente, però si gioca come sempre alla popstar devastata, incapace di reggere alla durezza del successo; regna la depressione cartonata, esibita, piagnucolosa, terribilmente remunerativa. Quando uno deve lanciare qualcosa, un disco, un tour, paradossalmente dice che non ce la fa più, che si ferma: prima di Angelina c’è stato tal Tananai che se la tirava a metà tra un reduce dal Vietnam e Bob Dylan: “Dopo tutti i miei successi parlavo sempre di me, ero al centro dell’universo, mi sono fermato per ritrovare me stesso”. Dichiarazioni in fotocopia perché i “creativi” sono gli stessi, la sovrastruttura è la stessa. Dopo tutti i successi? Insomma Tananai si ferma, ma non è vero, gli sta uscendo un disco, altri che fermarsi, annuncia una nuova raffica di imprescindibili concerti. Come lui tutti, rapper e trapper, neomelodici e stalentati vari, compresi i due gagà sanremesi, Colapesce e Dimartino, autori di motivetti da pizzeria: anche questi adducono stress da troppo successo, che degenera in incompatibilità di coppia, “ci fermiamo”, ma subito vien fuori una colonna sonora, da strombazzare con tutta l’enfasi possibile.

Pare che azzeccare una filastrocca per l’estate equivalga a finire nel vortice che fine non ha, “né lo profondo inferno li riceve, ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli”. Dice questo Tananai al centro dell’universo: “Sono un pestifero, lo sarò per sempre”. Che rockstar! E frigna perché deve ritrovare se stesso? Un’orgia di fragilità inconsapevole, “Non lo so, mi sento vuoto”, ma a suo modo petulante, invadente. Vogliono, fortissimamente il successo e, quando ce l’hanno, sciorinano le crisi d’ansia, si direbbe per la paura di perderlo, sapendo che non lo meritano. Non è un fenomeno italiano, anzi è, come sempre, d’importazione: in America non c’è stella e stellina che ci rinunci, come quella Billie Eilish che ha cominciato ancora minorenne, sempre la faccia imbronciata, lacrimosa, “non accetto il mio corpo” ma ci fosse una foto dove non esibiva le tettone strabordanti. Poi è passata a definirsi “non binaria”, che novità, il che le avrebbe provocato immancabili crisi d’ansia: ma perché Dio santo se oggi gli unici a sentirsi inadeguati, infami sono i banali, quelli che da maschi si sentono maschi e da femmine, femmine? E di trauma in trauma la popputissima Billie ha fatto i matti milioni, ogni trauma un nuovo disco, un concerto.

Se sono così stremati come ce la fanno? È difficile distinguere la verità dall’arrivismo più miserabile, difficile fidarsi di tutti questi Pierini che urlano “al lupo”: il cantante di un gruppo in voga negli anni Novanta, Perry Farrell dei Jane’s Addiction, a un certo punto sul palco dà di matto, si mette a prendere a pugni il chitarrista Navarro, scoppia un puttanaio, volano ipotesi allarmanti, di internamento, “Perry sta male”, ma subito si scopre che era una recita, avevano da lanciare una nuova canzone, la prima dopo quindici o vent’anni.

Non si augura a nessuno la fine di Tenco ma questo, sia consentito ripeterlo, suona in generale come un gioco un po’ troppo spregiudicato. Ma bando ai patetismi: limitiamoci a considerare il paradosso per cui più si canta di soldi facili e di vacanze esotiche e più si indulge a lamentazioni bibliche: qualcosa non torna. Dopo tanto nichilismo sarebbe il caso di tornare a difendere la vita, la sua bellezza, ma cantare la vita è difficile, ci riesce un poeta e i poeti sono una razza in via d’estinzione, altro che “musica leggerissima”.

Max Del Papa, 27 ottobre 2024

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