Apologia del Giuli-linguaggio

Gli attacchi al ministro della Cultura per il suo eloquio sono fuori luogo. Sempre meglio dei politici che sbagliano i congiuntivi

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Giuli dialettica

Al fine di compendiare al meglio, in questo tempio di Temi, una più efficace apologia dell’attuale ministro della Cultura, ci premureremo di utilizzare un linguaggio consono alla magnitudine della figura cui noi ci spingiamo, soli, a difendere.

Orbene, lo scherno di cui Egli è vittima principia dall’utilizzo in sedi istituzionali di espressioni appartenenti al registro alto della nostra lingua. Egli evita di addolcire l’eloquio, non rendendolo così decifrabile dalle anodine menti degli ascoltatori sempre meno avvezzi alle perversioni dell’alta linguistica, facendo indubbio (anche se di dubbio gusto) sfoggio di erudizione. Da Camus ad Heiddeger, saltando verso Luciano Floridi, fino ci sembra a richiamare le eco evoliane mai sopite nell’episteme proprio del Nostro, i salti sono arditi e certamente complessi.

Ma una tale architrave di pensiero, così barocca, arzigogolata ed artificiosa, mal si confà all’odierno strumento comunicativo, più che all’erudizione avvezzo al ciarpame ed alla paccottiglia pop, nel parlato come nello scritto. Abituati come siamo all’italianazzo che quotidianamente ci viene somministrato da ogni strumento del comunicare, l’eloquio forbito e la cultura ostentata ci sembrano farsesche messe in scena, qualcosa di cui sghignazzare e prendere a pernacchie.

Sembrano lontane le memorie di quelle stesse risate che prendevano a bersaglio precedenti ministri per il loro uso creativo del congiuntivo, la sfrontata ignoranza storica, l’ancora più agghiacciante incapacità di memorizzare i nomi dei capi di stato di paesi esteri. Ora il bersaglio del ridacchiare quotidiano, somma panacea occultante ogni vero e potente male della disgraziata patria che ci ingloba, diviene la prosa aulica di un uomo di evidenti buone letture. L’ormai obnubilata nostra capacità di discernere contenuti alti che non siano incartati da facili orpelli comunicativi, anziché recarci stigma, ci porta a ridere di chi invece conserva doti antiche disfacendo significati e significanti ed erigendo un periodare del discorso magnificamente ipotattico.

Vestigia di una scrittura non destinata all’oralità in cui sempre essa si discioglie ma che, purtroppo, per cause istituzionali viene declamata davanti ad un uditorio attonito. Certo, il Ministro in questione avrà pur peccato di un certo solipsismo, parlando probabilmente a sé medesimo, mentre gli ignoranti in platea venivano abbacinati dal tenore del di Lui discorso. Occorre perculare un ministro della Cultura poiché riproduce nel suo favellare il proprio sostrato culturale? Ci sembra condotta assai censurabile. Solo l’estrema povertà della odierna dialettica, sfociata in pura eristica, ci consente di spiegare un simile cortocircuito.

Questi sacripanti della chiarezza lessicale, i quali senza dubbio confonderanno persino gli apostrofi, si rifanno alla chiarezza, dimenticando che il vero sapere era un tempo “esoterico”, ossia riservato a pochi, e che decifrare un discorso oscuro è utile palestra per le sinapsi cerebrali, ammesso che ne siano permaste in qualche cranio. Oggi è d’obbligo andare dietro al popolino, utilizzando per questo un linguaggio da fantesche.

Tuttavia il callido ministro faccia tesoro dell’esperienza e prenda questa nostra pleonastica apologia come segno di fratellanza intellettuale, ben consapevoli che dietro l’erudizione esibita si cela sempre una qualche vanità. E la vanità è sempre vanità di vanità, ossia tutto è vano. Anche le parole, sono sempre sprecate.

Francesco Teodori, 27 ottobre 2024

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