Noi, fino a pochi giorni fa spelacchiati liberisti da divano, come disse lui (omettendo che sul divano ci avevano incatenato le illuminate decisioni sue e dei suoi soci di governo), vogliamo innalzare un peana a Domenico Arcuri, lo statalista da poltrona.
Uno così non ci ricapiterà più, meditate. Un altro che dimostri in modo così inequivocabile, con toni così indifendibili, con chiarezza espressiva così lombrosiana, il fallimento radicale dell’iperstatalismo burocrate e pulcinellesco italico, dove lo troviamo? Quest’uomo è nettamente il miglior sponsor possibile del liberismo (da divano o da trespolo, “col cocktail” come ci descrisse ottimisticamente lui o col boccale di birra), una sua conferenza stampa vale più della lettura dell’opera omnia di Von Hayek, una sua uscita è in grado di far approdare all’anarco-capitalismo più estremo perfino il funzionario più paludato.
Una vita nelle aziende di Stato, che è in realtà un ossimoro, dal momento che tali soggetti non rischiano soldi loro, bensì del contribuente, e andrebbero piuttosto chiamati col loro nome, carrozzoni (non a caso debuttò nel padre di tutti i carrozzoni, l’Iri), o al massimo in multinazionali di fatto oligopolisitche nel settore d’appartenenza, Domenico Arcuri ha un problema congenito col libero mercato. Ancora oggi, ha ribadito la sua turba parasovietica di fissare per legge il prezzo di un bene in regime di scarsità: “È infondato sostenere che sia il prezzo delle mascherine a determinare o condizionare la mancata fornitura”. Non solo non ha mai sentito parlare di Milton Friedman, ma evidentemente era anche distratto al liceo, quando in classe si leggevano I Promessi Sposi, nella fattispecie il capitolo sulla carestia e la mancanza di pane a Milano. I farmacisti di ieri come i fornai di oggi, se il bene non circola è colpa di produttori e/o commercianti, non della geniale idea dirigista che sulla carta funzionava così bene, con tanto di timbro della cancelleria di Stato.
Il commissario straordinario all’emergenza Coronavirus (forse, la prossima volta, meglio pensare a qualcuno di ordinario) ha anche la tempistica e la reattività tipiche dello statalista da poltrona. Sempre oggi ha infatti avviato la gara, rivolta ad imprese “italiane ed internazionali”, per ottenere il numero massimo di reagenti necessari ad effettuare i 5 milioni di tamponi promessi alle Regioni. Oggi, a tre mesi abbondanti dalla dichiarazione dello stato d’emergenza. Una velocità d’esecuzione da socialismo reale, ma non vorremmo offendere in contumacia la burocratja delle fu democrazie popolari.
Appena può, lo statalista da poltrona chiarisce inoltre che qualcosa non è compito suo, ovvero esercita l’italianissima arte dello scaricabarile. A una domanda sullo stato dell’arte della App di tracciamento Immuni, il nostro risponde: “Il team del ministro Pisano insieme a quello del ministro Speranza e alla Sogei stanno lavorando alacremente, confido che i tempi che hanno dato possano essere rispettati. Io li sto supportando e sostenendo per quanto possa”. Supportare e sostenere, è la strategia collaudatissima dello statalista da poltrona. Rimpallare la responsabilità, il suo immediato corollario.
Del resto, tornando all’affaire mascherine, “non è il commissario a dover rifornire le farmacie”. Il commissario, però, potrebbe quantomeno levarsi di torno, con le sue velleità di pianificazione compulsiva, le sue tabelle quinquennali dei prezzi e i suoi ordini fuori tempo massimo, e vedrà che produttori, farmacisti e consumatori sapranno benissimo incrociare i loro reciproci interessi da soli.
Il dottor Domenico Arcuri, probabilmente partorito da un’astuzia thatcheriana della ragione, ci sforna quotidiniamente la miglior lezione che uno statalista da poltrona può offrire. Quella sulla sua inutilità.
Giovanni Sallusti, 12 maggio 2020