di Maddalena Loy
Se ci stupiamo che il Parlamento e gran parte della grancassa mediatica italiana abbiano ridotto quello che doveva essere un grande dibattito civile sulla guerra a un sondaggione permanente, e h24, sul contratto del professor Orsini (rescisso proprio ieri sera dalla Luiss), non abbiamo neanche lontanamente idea di cosa possa aver scatenato, in America, l’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk. L’operazione ha letteralmente sconvolto i Democratici portandoli a nominare, soltanto cinque giorni dopo, la giornalista Nina Jankowicz a capo del neonato Disinformation Governance Board. L’ufficio è stato istituito in fretta e furia per “combattere la disinformazione” ed è stato posto, incredibilmente, alle dipendenze della Homeland Security, ossia del Dipartimento per la Sicurezza Interna americano, che ha il compito di difendere il Paese dagli attacchi terroristici.
Si tratta, insomma, di una delle poltrone più calde dell’amministrazione americana, ribattezzato subito dalla stampa il “Ministero della Verità” (Ministry of Truth) di orwelliana memoria. Se già questo è di per sé rilevante, lo è ancora di più la decisione di affidarne la direzione esecutiva a Nina Jankowicz. La “debunker istituzionale” voluta da Biden è una ex borsista Fulbright presso, indovinate, il ministero degli esteri ucraino. Studiosa di disinformazione & geopolitica, origini russe, 33 anni, rigorosamente laureata a Georgetown, parla russo, discretamente ucraino e polacco, e collabora con i maggiori quotidiani americani. Sul suo profilo Twitter ha ovviamente la bandiera ucraina accanto a quella degli Stati Uniti, è una fan accanita della schwa, non usa mai la parola “mamma” ma “birth person” e ha scritto il libro “Come essere una donna online”, dedicato alle molestie sessuali in rete: c’è tutto, insomma, per fare di lei una perfetta “woke” gender fluid.
La Casa Bianca è sotto pressione per rimuoverla dall’incarico: Tucker Carlson di Fox News l’ha definita una “utile idiota” del Partito Democratico e per molti politici e giornalisti, Jankowicz è una radicale. È inoltre riemersa una sua originale quanto grottesca esibizione su TikTok, nel 2020, in cui Jankowicz esorta a votare contro Trump cantando una versione di “Supercalifragilistichespiralidoso” con testo riadattato da lei contro il “riciclaggio di fake news” sul Covid e (già allora) l’Ucraina.
You can just call me the Mary Poppins of disinformation 💁🏻♀️ https://t.co/eGV9lpctYn pic.twitter.com/WVQFA2bPmq
— Nina Jankowicz 🇺🇦🇺🇸 (@wiczipedia) February 17, 2021
È lei, infine, che ha definito la vicenda del computer di Hunter Biden “una montatura russa”. Eppure in quel computer ci sono tutte le prove dei rapporti del figlio del Presidente con Burisma (la più grande compagnia di gas ucraina) e Metabiota (società americana in Ucraina specializzata in ricerca biotech su patogeni mortali). Diciotto mesi dopo, anche l’autorevole “New York Times”, sia pure fuori tempo limite, ha definitivamente confermato le gravi implicazioni del figlio di Biden pubblicando una lunga storia su di lui e sull’inchiesta del Dipartimento di Giustizia americano: Jankowicz dovrà lavorare parecchio per capovolgere la verità e tentare di farla passare per “fake news”.
L’accusa più pesante contro Jankowicz e contro il nuovo Ministero della Verità è quella di voler smantellare il Primo Emendamento, che stabilisce che il Congresso non possa promulgare leggi che limitano la libertà di parola o di stampa. Il confine tra moderazione (operata dalle piattaforme private) e censura (decisa dallo Stato) è molto labile: affidarne la gestione a Jankowicz, apertamente schierata, è stata una scelta quantomeno discutibile. In sua difesa è dovuto intervenire un altro pilastro della comunicazione della Casa Bianca: Jen Psaki. La portavoce del presidente, 42 anni, ha dichiarato che lascerà entro un anno per andare a lavorare in CNBC. Interrogata dalla stampa sul nuovo Ufficio contro la disinformazione di Jankowicz, che di fatto sarà il suo alter ego, Psaki non ha saputo rispondere su ruoli e obiettivi, ma ha tenuto a definire Jankowicz “altamente qualificata”.
Psaki ha molto in comune con Jankowicz: entrambe hanno legami con l’Ucraina e la Russia, entrambe sono belle, giovani, apertamente liberal e apertamente gender fluid: più che da un’istituzione democratica, sembrano uscite da un casting di una società di consulenza. Jankowicz è stata definita da Pedro Gonzales di Chronicles “una personalità derivata da Marvel/Disney/Harry Potter: sotto una sottile patina sorridente è viziosa e totalitaria”. Psaki, invece, è stata accusata per essere scoppiata in lacrime in TV commentando la decisione di alcuni Stati americani (tra cui la Florida del repubblicano Ron De Santis), di non inserire l’insegnamento della fluidità di genere nei programmi scolastici statali, almeno fino alla terza elementare.
Si è guadagnata sul campo l’epiteto di “Psycho Jen”. È lei che, un’ora dopo l’acquisto di Twitter, ha comunicato che l’amministrazione vuole al più presto riformare la Section 230, legge istituita nel 1996 che non considera i social come “editori” e dunque li esonera dalle responsabilità editoriali: “Il Presidente è molto preoccupato” e vuole “combattere la disinformazione sul Covid e sulla Russia”, ha detto Psycho Jen, allineandosi a Jankowicz. Saranno loro, le due interpreti della propaganda yankee 3.0, a decidere di quante libertà potranno godere gli americani tra pandemia e guerra.
Maddalena Loy, 2 maggio 2022