Cronaca

“Arriva il treno LGBTQIAPK+”: ha più lettere gaie che vagoni

La mossa di Atac: il trenino della felicità, tutto colorato di arcobaleno. Poi a Termini ti accoltellano, però almeno siamo inclusivi

Treno gay

“Oh happy happy happy happynesse”. Ve lo ricordate Lifno Banfi barbone, con la figlia, nel metafisico “Grandi Magazzini”, anno di grazia mi pare 1984? Anche a Roma nel 2024, 40 anni dopo, hanno la happynesse, hanno il trenino della felicità made in Atac, che se ne vanta: “È entrato in servizio questa mattina sulla metro A il ‘trenino della inclusività’, il primo allestito coi colori arcobaleno della bandiera pride progress, che resterà in servizio per tutta l’estate”.

Va bene, inclusivity is the new happyness, ma perché solo fino all’estate? Non saprà di discriminatorio stagionale? Che non si fa per la campagna elettorale permanente, sindaco Gualtieri! Ma ben venga il trenino della felicità iridata, non fa male a nessuno, scorre colorato per le stazioni, magari accende anche un sorriso, dove sta il problema? Sui social lo prendono con scioltezza il trenino multicolore, lo prendono in 50 sfumature psicologiche: c’è lo scheccheggiante, termine ormai sdoganato da molto in alto, che non sta più nella pelle ed è tutto uno strepito, un gridolino, “no vabbè adoooro!”, c’è chi non si scompone, non manca il fobico che dice “io aspetto il prossimo” ma in generale la trovata non disturba nessuno.

E perché dovrebbe poi? Se mai, fa notare qualche romano scafato, per un trenino della felicità che arriva ce ne stanno dieci cento mille della disperazione, che non partono, sono sempre in ritardo, prendono fuoco, ah, i trasporti romani, roba che nella jungla tropicale se la sognano. Se poi sarà inclusivo davvero, si vedrà: uno se lo immagina pieno di personaggi allegri, chiassosi, vestiti da carnasciale pride, ma la realtà sarà la solita dietro la facciata dell’arcobaleno: gente mesta, rassegnata, distratta che entra ed esce e l’arcobaleno non lo vede già più, la solita folla disperata e mesta di tutte le metropoli in tutti i tempi che passa e si usura allo sfiorarsi indifferente dei gomiti, come diceva Maupassant. E si era nell’Ottocento.

Inclusivo il metrò elettoralistico? Certo, ci sale chi vuole, un treno della metropolitana che altro dovrebbe essere se non un convoglio che accoglie, che include passeggeri dalle destinazioni le più incerte? Ma forse all’Atac si riferiscono alla sigla che ormai è più inclusiva dell’alfabeto, “Lgbtxyzfhhslakjdjaslkdaslkjdaslkp++”… “La P per cosa starebbe?” chiede uno sul diffidente. “Polisessuale” risponde un militante fugando i sospetti più turpi. Se lo dice lui…

Questa trovata del trenino felice inclusivo iridato non è niente di che, non è neanche male, è acqua fresca, è la politica dell’apparenza, dei simboli che velano il nulla, un treno qualsiasi, riverniciato, che dovrebbe simboleggiare, non si capisce bene come, i valori evangelici e umani della tolleranza, del rispetto, dell’amicizia. E invece rappresenta solo una captatio benevolentiae, arcobaleni sessuali della tipica inclusività escludente, risentita, strumentale nel mare magno di disservizi e di ferocie metropolitane, capitoline.

Ma va bene così, la politica essendo ormai faccenda da influencer. Se ne stanno accorgendo tutti, con qualche anno di ritardo: i Ferragnez che dovevano essere sparati in politica e sono stati silurati in extremis, forse per la vanità di una giornalista, forse per quelle tortuosità indicibili che usano le giornaliste, successivamente premiate con una sovraesposizione sospetta, per far fuori chi si sta allargando troppo, hanno imposto il modello e ogni leader si comporta come loro. Apparenza, autocompiacimento per mascherare il vuoto.

Che dire dei due narcisetti mai cresciuti, Renzi e Calenda, che credevano di marciare sull’Europa e non marciano neppure a casa loro? Che dei pacifisti a senso unico alla Santoro, disarmanti nel loro disarmo unilaterale, nei loro deliri sovietisti fuori dalla storia, dalla contingenza geopolitica? Ed è la politica, non la società, è la politica amministrativa che inventa, che impone, guadagnandoci nell’intreccio di valori, consulenze, appalti, fluidità elettorali, i trenini della felicità chiassosa ma, al fondo, disperata, uno spasmo di vitalismo cromatico nel grigiore di una metropolitana che scorre per i visceri di una metropoli scassata, spiaggiata come una balena agonizzante.

Tu prendi il treno inclusivo, scendi, esci a Termini e magari ti accoltella una risorsa migrante non tanto inclusiva. Ma se i colori dell’arcobaleno servono “a far la vita meno amara”, come cantava Nino Manfredi, ben vengano, che non tolgono niente a nessuno. Magari ecco non li trasformassero in feticcio discriminatorio alla faccia dell’inclusività, il solito vettore d’isterismi laccati, un pretesto casinista per l’ennesima polemica sul nulla, interessata, strumentale. Elettorale. Ma lanciato il virus demagogico partono subito gli anticorpi, i vaccini del sarcasmo: chiede un romano su X: “Ahò, e quale sarebbe il vagone personale di papa Bergoglio?”.

Max Del Papa, 12 giugno 2024

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