Il tribunale di Torino, come noto, ha fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere contro 16 dei 28 imputati nel maxi processo al centro sociale Askatasuna. La sentenza ha confermato sì 18 condanne per reati legati a singoli episodi, come le dimostrazioni violente contro i cantieri del Tav in Val di Susa, con pene dai 4 anni e 9 mesi ai 5 mesi di reclusione. Ma le 10 assoluzioni, e soprattutto la mancata conferma del reato associativo, ha fatto scattare la festa dei militanti. Gli applausi dei sostenitori in aula hanno interrotto la lettura del dispositivo, e la gioia si è protratta a lungo. Anche con cori contro le forze dell’ordine e la procura.
I festeggiamenti fuori dal tribunale
Decine di attivisti No Tav e simpatizzanti del centro sociale hanno festeggiato davanti al Palazzo di Giustizia. “Il teorema è crollato”, ha detto Andrea Bonadonna, uno degli imputati. “Chi lotta per gli altri non può essere equiparato a un delinquente”.
Le reazioni della difesa e della politica
Ad esultare anche i legali dei 28 imputati (i capi di imputazione erano 72) contro cui la procura aveva chiesto 88 anni di carcere complessivi e che invece ne incassa “solo” 21. Dice l’avvocato Claudio Novaro, al Corriere: “Dovremo leggere attentamente le motivazioni, ma c’è da parte nostra una valutazione positiva della sentenza” perché “la partita si giocava su due fronti: quello dell’associazione per delinquere e la vicenda del Neruda (centro occupato), per la quale l’accusa di estorsione è stata riqualificata in violenza privata”. E al Manifesto aggiunge: “Il primo, che inizialmente gli inquirenti provarono a formulare come associazione sovversiva, ipotesi respinta dal gip, è stato smantellato alla radice. L’ipotesi di Askatasuna come regia occulta del conflitto violento in città come in Val di Susa si basava su intercettazioni decontestualizzate e congetture complottistiche. Il fronte relativo al Neruda ha rappresentato, invece, una caricatura venuta male e l’accusa estorsiva, che non stava in piedi, è stata ridimensionata in violenza privata”. Il caso è quello dei migranti che sostenevano di essere stati cacciati dall’immobile con la violenza.
La politica si è divisa: la sinistra ha parlato di “vittoria contro la criminalizzazione del dissenso”, mentre il centrodestra ha chiesto lo sgombero del centro. Elena Chiorino, vicepresidente della Regione Piemonte, ha definito gli attivisti “delinquenti con cui lo Stato non deve scendere a patti”.
La beffa dei risarcimenti
Nonostante lo Stato avesse chiesto 6,8 milioni di euro di risarcimenti, i condannati dovranno pagare solo 500 euro in totale. La Presidenza del consiglio e i ministeri di Interno e Difesa, se intendono ottenere qualcosa, dovranno proporre una causa civile. A incassare il mini-risarcimento sarà invece la società che gestisce la sezione transfrontaliera della Tav, la Telt, che otterrà i 500 euro per il danneggiamento di un reticolato. I sindacati di polizia hanno espresso delusione. Valter Mazzetti, segretario della Fsp, ha chiesto al ministro Piantedosi di impugnare la sentenza: “Non si può chiudere qui una storia di violenza”.
La festa all’Askatasuna
Per festeggiare il tutto, il centro sociale ha organizzato un brindisi con musica e slogan contro la magistratura. Sui social sono comparsi video con insulti a Carlo Ambra, ex dirigente della Digos che ha condotto le lunghe indagini sugli scontri in Val di Susa e a Torino da cui spiega l’Ansa – “la procura aveva teorizzato che almeno dal 2009 all’interno del centro sociale si fosse formata una vera e propria organizzazione che coordinava e organizzava gli scontri di piazza”. Nei video si sente chiaramente urlare: “Carlo Ambra sei una m*** si lo so”. Il sindacato Sap ha criticato la festa: “Azioni violente devono essere condannate con fermezza”.
Come se non bastasse, pare che durante l’udienza, una giovane attivista abbia mostrato il dito medio alla pm Manuela Pedrotta. “Lo rivendico”, ha detto poi fuori dall’aula. Intanto, il sindaco Lo Russo (Pd) non ha commentato, ma dal Comune è trapelato sollievo per l’esito del processo visto il tentativo di “regolarizzare” la presenza del centro sociale in città.
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