La presidenza di Donald Trump finisce nel modo peggiore: un assedio al Congresso Usa, la pantomima di un golpe, tra invasori armati (gravissimo) e pagliacci abbigliati con pelli di bisonte. Il bilancio è osceno e tragico al tempo stesso: le Glock delle forze dell’ordine puntate ad altezza uomo per difendere l’Aula, materiale esplosivo davanti alla sede del Partito democratico, diversi feriti, quattro morti. La famiglia del tycoon che definisce “patrioti” quei teppisti, lui che insiste con il ridicolo e, a questo punto, pericoloso mantra delle “elezioni rubate”. Senza contare che, forse, Trump ha voluto indirizzare una personale minaccia alla classe dirigente dem, pronta a vendicarsi di lui: non crediate di spedirmi in galera, perché vi scateno la guerra civile. Sarebbe persino peggio di un tentativo maldestro di colpo di mano. Tutto molto triste. Uno spettacolo indegno che rimarrà purtroppo l’unico ricordo di una presidenza, almeno fino a gennaio 2020, caratterizzata da indubbi successi in economia e politica estera.
La fine ingloriosa di Trump
È la pietra tombale su un progetto politico che, nonostante i suoi limiti, nonostante le intemperanze dei suoi protagonisti (che confidavamo potessero rimanere nel recinto del folklore), persino al netto delle strizzate d’occhio ai più impresentabili rifiuti della società statunitense, pareva potersi strutturare come un’alternativa seria e credibile al globalismo. Purtroppo, la coda di un mandato, fatalmente arrovellatosi su una gestione grottesca della pandemia, è caduta nella trappola dell’identity politics. E alla destra serviva tutto, meno che un manipolo di Black lives matter di segno contrario. Quegli altri, almeno, non si sono mai permessi di invadere i palazzi delle istituzioni democratiche armi alla mano.
Il punto vero è capire se, da questo vicolo cieco, la democrazia più antica e importante dell’Occidente, possa uscire. Dalla risposta a questa domanda dipendono in buona parte i destini del mondo che conosciamo. Specialmente in un momento storico cruciale, dinanzi alla sfida radicale delle autocrazie asiatiche, dinanzi a una Cina uscita incredibilmente a testa alta da quella che poteva essere la sua Chernobyl.
Democrazia in agonia
Se il problema fosse solo Trump, se, cioè, il presidente uscente fosse una specie di anomalia del sistema, basterebbe un reset affinché il meccanismo democratico torni a funzionare a pieno regime. Ma Trump non è il virus che un organismo sano deve espellere. Il fatto è che l’organismo non è sano. La democrazia americana è stata erosa da decenni di scientifico smantellamento della politica come “conversazione civile”. È stato l’ossessivo ricorso al dispositivo delle “identità”, che concepisce la società come il teatro di un conflitto permanente tra minoranze oppresse e maggioranze oppressive, a portare gli Usa sull’orlo di una guerra civile. Su questo, sinistra e destra si sono colpevolmente rincorse.
La prima ha trovato in quello strumento il perfetto sostituto al paradigma marxiano della lotta di classe. Non è un caso che questa tendenza abbia trovato terreno fertile in America, il Paese orfano del marxismo ortodosso. La destra, che per ovvi motivi era associata alla categoria dei persecutori, ha prima neutralizzato la rivolta dei “reietti” con la l’ideologia del mercato, che relegava spontaneamente ai margini gli “ultimi”. Il gioco ha funzionato finché l’atroce mannaia globalista non s’è abbattuta pure su quella parte della comunità che un tempo faceva parte della classe dei privilegiati. Poi, sono state le forze progressiste a intercettare le dinamiche del nuovo capitalismo, associando, a quest’agenda economica, l’agenda sociale che giornalisticamente conosciamo come il “politicamente corretto”. In realtà, di “corretto” ha avuto ben poco ed effettivamente si è tradotta in un’inversione dei rapporti di dominio: stavolta, a sentirsi sotto minaccia sono stati i Wasp, già protagonisti dell’epopea reaganiana.
L’errore fatale della destra
Il resto è storia recente: per risalire la china, i Trump della situazione non hanno fatto altro che soffiare sul fuoco di questo disagio, volgendo a proprio favore esattamente le stesse alchimie dell’identity politics, oltre che le meraviglie tecnologiche del capitalismo dei big data (basti pensare al ruolo dei social nel trumpismo, ai canali d’informazione alternativa e all’affaire Cambridge Analytica). Insomma: la democrazia che suscitava la meraviglia (e le preoccupazioni) di Alexis de Tocqueville, è oggi un corpo in cancrena, pervaso dagli spasmi degli opposti fanatismi. In fondo, se The Donald ha montato l’imbarazzante messinscena sui brogli, Hillary Clinton, in campagna elettorale, aveva esortato Joe Biden a non concedere la vittoria a Trump.
Tuttavia Biden, fin dalla notte delle presidenziali, ha assunto i toni del riconciliatore. Si è espresso, insomma, come se volesse tagliare i ponti con questo autodistruttivo scontro tra settarismi. Anche ieri, nonostante la gravità della situazione, ha rinunciato al linguaggio divisivo. Se riuscisse a spezzare la spirale perversa della politica delle identità, renderà un servizio non solo agli Stati Uniti, ma all’intero Occidente.
Alessandro Rico, 7 gennaio 2021