Pochi giorni prima di Pasqua abbiamo avuto modo di leggere la relazione conclusiva delle attività della Commissione di studio sull’astensionismo elettorale, istituita dal governo, per iniziativa del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà. Presieduta da Franco Bassanini, composta da personaggi di spicco, dal presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, a Leonardo Morlino, professore di Scienza della politica, a Paolo Feltrin, politologo ed esperto in materia elettorale. Solo per citarne alcuni.
Iniziativa più che lodevole, visto che nel corso degli ultimi anni si è registrato un costante declino della partecipazione elettorale: alle prime elezioni repubblicane per la Camera dei deputati partecipò al voto oltre il 92% della popolazione, alle elezioni del 2018 meno del 73%. Alle elezioni europee del 2019 ha partecipato al voto meno del 55% degli elettori. Al ballottaggio delle ultime amministrative il 40%. La Commissione ha suggerito una serie di possibili iniziative – non votare solo nelle scuole, ma a esempio negli uffici postali; promuovere il voto elettronico con digitalizzazione della tessera e delle liste elettorali – tutte di buon senso.
Il dubbio è che si sia abusato del tempo e della competenza dei commissari, impegnandoli forse su un quesito distorto. Siamo certi che la domanda corretta fosse: perché aumenta l’astensionismo elettorale? O forse non sarebbe più interessante capire come mai ancora tanti italiani vanno a votare nonostante l’offerta politica e istituzionale sempre più scadente? Ci sono almeno dieci buone ragioni per “giustificare” la decrescita (felice o infelice?) della partecipazione elettorale.
1. Come si può chiedere di andare alle urne agli elettori che vedono i partiti impegnati a definire accordi politici con coloro che in campagna elettorale eran stati nemici più che avversari? La domanda attende risposte puntuali anche dal partito di cui fa parte il ministro D’Incà: in quattro anni ha cambiato tre alleanze diverse pur di occupare ruoli esecutivi. La coerenza sarà la virtù degli stupidi, ma l’incoerenza potrebbe essere una ragione di demotivazione sufficiente per non tornare a votare?
2. La composizione delle liste elettorali è ormai diventato un mistero doloroso. Le segreterie di partito, le correnti, per chi le ha ancora, i leader più o meno carismatici, i capipopolo, sono gli unici che mettono in fila i nomi, senza poi che l’elettore possa più esercitare – da anni – l’uso della preferenza. Siamo sicuri che non si tratti di una forma di deterrenza contro il voto?
3. Da più di dieci anni la democrazia italiana è sotto tutela: i governi del Paese cadono e nascono attraverso crisi extraparlamentari, nonostante la ripetuta centralità della democrazia parlamentare. Anche il secondo governo Conte – di cui non abbiamo nostalgia, beninteso – non ha mai avuto un voto di sfiducia in Parlamento. Giorgio Napolitano teorizzò il ruolo delle élite – “non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite” – guidando la nascita del governo Monti, precostituendogli uno scranno da senatore a vita; Sergio Mattarella invocando il Covid ha evitato le elezioni, nonostante che le urne siano state normalmente aperte in tutti i Paesi democratici, dagli Stati Uniti alla Germania.
4. Abbiamo la Costituzione più bella del mondo – secondo la vulgata tanto cara al Pd e ai suoi amici – che viene regolarmente smentita nella prassi elettorale del Capo dello Stato. Secondo autorevoli costituzionalisti, come Michele Ainis, la rielezione del Presidente della Repubblica dopo il primo settennato è incostituzionale. Eppure, Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella sono stati rieletti.
5. Abbiamo un ministro degli Esteri che non conosce le lingue e nemmeno la geografia (italiana e non solo) e che ha avuto la responsabilità del ministero del Lavoro senza aver mai lavorato: l’incompetenza al posto della meritocrazia può dissuadere gli italiani dal voto?