A 17 anni dall’11 settembre 2001 ci si può ben chiedere cosa sia andato storto. Si processano le idee dell’allora presidente George W. Bush, che allora subì l’attacco e provò a reagire. La stessa domanda “Perché ci odiano?”, a cui provarono a rispondere storici come Bernard Lewis, è diventata quantomeno sconveniente. Prendere le parti di Donald Rumsfeld, Colin Powell, Tony Blair e degli altri protagonisti della guerra al terrorismo, può comportare insulti e accuse di fascismo. I cattivi sono le vittime, adesso, e chi provò a difenderle, non i criminali che dirottarono tre aerei pieni di civili ignari e innocenti per portarli a impattare contro i loro bersagli, per uccidere migliaia di altri civili ignari e innocenti.
Che cosa è andato storto? Non abbiamo perso la guerra. Militarmente parlando, l’azione anti-terrorismo ha registrato un successo dietro l’altro, inclusa l’uccisione di Osama bin Laden, mente e sponsor dell’attacco e la distruzione della sua rete terroristica Al Qaeda (ormai è ridotta a forza terroristica locale, ancora molto pericolosa per siriani, iracheni e yemeniti, ma non più per noi). Non siamo, dunque, di fronte a un fenomeno di demoralizzazione tipico di ogni sconfitta, con tutto il suo carico di recriminazioni e legittime condanne al governo che ha perso. Non siamo neppure di fronte a una crisi morale della società occidentale, come molti pessimisti tuttora sostengono. La prova è la reazione più che coraggiosa, anche eroica, dei civili colpiti dal terrorismo. A partire dai comuni passeggeri del volo United 93, quello indirizzato sul quarto bersaglio dell’11 settembre: furono i primi ad avere il coraggio di ribellarsi ai dirottatori, ottenendo la prima vittoria (tragica: morirono tutti) nella guerra contro il terrorismo. Il crollo delle Torri Gemelle fu teatro di innumerevoli atti di eroismo e sacrificio da parte di pompieri, impiegati, passanti che sacrificarono la loro vita per salvarne tante altre.
Quel che è successo, semplicemente, è il classico caso di “tradimento degli intellettuali”, come tante altre volte abbiamo visto nel corso del Novecento. Nei giorni immediatamente successivi all’11 settembre, all’attacco più grave subito dagli Stati Uniti, in tempo di pace, sul suo territorio, vi sono state solo tre argomentazioni dominanti fra gli intellettuali: il senso di colpa, la condanna della risposta militare e, più grave ancora, la negazione.
Senso di colpa: appartiene a tutti quegli accademici, giornalisti e operatori umanitari, che prima ancora di sapere veramente cosa fosse successo e chi avesse commesso il crimine, hanno subito avuto una risposta pronta: “chi la fa l’aspetti”. Nel 2001 la recriminazione dei mali dell’Occidente era molto forte: si era nel pieno della Seconda Intifada e il mondo intellettuale, ogni giorno, molto più di oggi, sorvolando sugli attentati suicidi contro i civili israeliani, puntava il dito contro Israele e i suoi alleati americani. Pochi mesi prima dell’11 settembre c’era stata la violenta contestazione dei No Global contro il G8 di Genova. Pochi giorni prima dell’11 settembre, nella conferenza di Durban contro il razzismo, un evento delle Nazioni Unite, il mondo in via di sviluppo, compatto, aveva chiesto di equiparare il sionismo al razzismo e chiedeva grandi risarcimenti per i peccati occidentali della schiavitù dei neri e del colonialismo. In questo clima culturale, i predicatori a tempo pieno contro l’Occidente non hanno cambiato idea quando hanno visto gli aerei dirottati da Al Qaeda schiantarsi sulle Torri Gemelle. Hanno semplicemente applicato il loro vecchio ragionamento al nuovo evento: hanno giudicato l’11 settembre come una reazione del mondo povero contro l’Occidente ricco e le sue colpe storiche.
Condanna della risposta militare: anche prima che venisse formulata una strategia di risposta all’11 settembre, aveva fatto giustamente scalpore la notizia del linciaggio di un sikh negli Stati Uniti, scambiato per un estremista islamico solo perché portava il suo tradizionale turbante. Questo episodio, rimasto un caso unico, ha fatto scattare da subito una campagna contro l’islamofobia, la paura che gli occidentali avessero paura dell’Islam. Ogni reazione militare successiva, dalla guerra in Afghanistan in poi, ha fatto scattare questo campanello di allarme. Dopo ogni bombardamento, dopo ogni vittima collaterale fra i civili, la critica all’azione militare è diventata sempre più chiassosa, fino a soffocare ogni dibattito dopo la scoperta degli abusi americani nel carcere iracheno di Abu Ghraib, le foto dei prigionieri a Guantanamo, l’inchiesta sulle prigioni segrete della Cia e sui metodi violenti di interrogatorio dei sospetti terroristi. Questa critica radicale alla risposta militare occidentale, oltre che da una giusta e naturale critica a crimini e abusi commessi in guerra dai propri eserciti, è motivata soprattutto dalla logica della “spirale di violenza”, tipica del relativismo morale. L’idea, cioè, che non vi sia una guerra giusta, che non vi siano un aggressore e un aggredito, ma che la violenza, in sé, chiami altra violenza. In pratica, dalla paura che la reazione occidentale al terrorismo causasse ulteriore terrorismo invece che risolvere il problema.
Infine, ancor più grave, c’è la negazione. Non tutti gli intellettuali, sacerdoti e operatori umanitari sono rimasti impressionati dai fatti dell’11 settembre: c’è chi ha applaudito. E non solo le piazze palestinesi o le curve dello stadio turche che hanno festeggiato dopo che gli Usa sono stati colpiti in casa da terroristi islamici. Ci riferiamo agli anti-americani per eccellenza in Europa: fascisti e comunisti. E agli anti-sistema negli Usa: dagli anarchici ai reazionari, dai suprematisti bianchi ai rivoluzionari neri. Tutti costoro hanno letteralmente festeggiato lo “schiaffo all’Impero” arrivando a celebrare l’eroismo dei criminali jihadisti di Bin Laden. Lo hanno fatto in privato, nelle loro mailing list (i social network di allora), lasciando piccole tracce nei loro siti personali, parlando non troppo ad alta voce. Perché sapevano di andare incontro al possibile linciaggio di un popolo colpito e ferito, ma ancora fiero e pronto a combattere. Quando tutti costoro sono usciti allo scoperto, hanno tenuto ben nascosto il loro entusiasmo iniziale, ma lo hanno trasformato in negazione: l’11 settembre non c’è mai stato, se c’è stato non è come lo raccontano. Nessun aereo si è schiantato contro il Pentagono, se proprio un aereo c’era non era dirottato da islamici ma da agenti segreti occidentali.
Le Torri Gemelle non sono state fatte crollare dall’impatto degli aerei di linea e neppure dall’incendio successivo, ma da cariche di esplosivo nascoste al loro interno da qualche “grande vecchio” ebreo o americano. Come i nazisti dopo la sconfitta in guerra, gli anti-americani viscerali e gli anti-sistema americani, hanno nascosto la complicità nella negazione, esattamente come quei nazisti che, dopo aver sostenuto attivamente la Soluzione Finale, hanno negato l’esistenza dei campi di sterminio. I metodi sono gli stessi, a partire dall’esaltazione di “dettagli che non tornano” (“Non c’erano camere a gas” per i negazionisti di ieri, a “Non si vede nessun aereo schiantato sul Pentagono” per quelli di oggi). E se ne sono convinti. In un delirio tipico della mente totalitaria, certi che l’America, o l’ebraismo o il sionismo siano il Male radicale nel mondo, i negazionisti hanno attribuito loro la colpa dell’atrocità che fino a ieri celebravano. Raramente un negazionista dell’11 settembre, oggi, è un fascista o un comunista, il più delle volte è un lettore curioso che trova semplicemente interessanti queste teorie cospirative, senza sapere chi le ha elaborate e per quale motivo. Queste teorie hanno fatto presa, eccome! Perché il mistero fa audience, specie se abbinato a dubbi atroci sull’operato del proprio governo. E quindi queste tesi dilagano, merito anche degli apparati di propaganda che lavorano assiduamente contro gli Usa in Iran, a Cuba, in Venezuela, in Russia e in Cina, dove tutto fa brodo per condannare lo “zio Sam”. Sono tossine intellettuali, potente veicolo di anti-americanismo e anti-semitismo. Abbastanza diffuse perché alla domanda “chi ha commesso l’attentato dell’11 settembre”, l’uomo della strada, intimidito e dopo essersi guardato le spalle, si limiti a dire sottovoce “non si sa, è tutto molto misterioso”.