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25 aprile: come la Liberazione è diventata festa partigiana, fondata sul mito della resistenza

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Quest’anno il 25 aprile è scivolato via nel relativo silenzio creato dal Covid-19, rotto dal canto di “Bella Ciao” che si è allargato nel vuoto delle strade e delle piazze, senza che peraltro si sia placato un dissenso profondo non sull’appuntamento in sé – una volta assunto il giorno della liberazione di Milano come quello della fine al tempo stesso della dittatura fascista e dell’occupazione nazista – ma sul suo significato. C’è la vulgata – che possiamo dire ufficiale, perché condivisa dalle istituzioni repubblicane, dalla Presidenza della Repubblica in giù – che ne fa una festa tutta partigiana, basata su due ricostruzioni storiche tutt’altro che condivise: che la liberazione sia da attribuirsi almeno in parte significativa alla lotta partigiana; e che proprio una liberazione così interpretata sia stata alla base della recuperata democrazia. Ora la prima ricostruzione è del tutto forzata, perché l’Italia è stata liberata dalla lenta e sanguinosa avanzata delle truppe alleate, che evidentemente puntavano, con l’apertura di questo fronte, a stringere un cerchio di ferro intorno alla Germania; certo con la presenza di una resistenza ricca di testimonianze esemplari, ma non tale da pesare sull’esito della guerra. Tant‘è che i sacrari della resistenza, cui va giustamente la memoria, sono non quelli di grandi battaglie, ma di sollevazioni contro i tedeschi in fuga e soprattutto di tragiche ritorsioni, con a sua testimonianza esemplare le Fosse Ardeatine.

Man mano che ci si allontana da quel 1945, con la lenta e quasi compiuta uscita di scena dei protagonisti, occorre restituire ai giovani una visione non mitizzata, costruita da certa parte politica, che ne ha fatto una specie di eredità esclusiva da gestire in proprio, PCI, o tramite organizzazioni collaterali, l’Anpi. Non è più sufficiente ripetere le stanche commemorazioni imparate a memoria di qualcosa accaduto tre quarti di secolo fa, senza più l’autorevolezza di chi lo ha vissuto personalmente; e, neppure, reclutare nell’Anpi schiere di giovani, nipoti o meno di partigiani di allora.

Ancor più forzata è stata la seconda ricostruzione, per cui la resistenza, proprio per la parte fondamentale giocata nella liberazione del Paese, sarebbe stata la fonte della Costituzione e della forma democratica della Repubblica. Si può prendere atto che i partigiani non furono solo comunisti, ma certo lo furono in modo prevalente; e, per quanto combattessero per riguadagnare la libertà, questa era quella che ritenevano coniugata con l’uguaglianza nell’Unione sovietica staliniana. Una visione che, condivisa alla lettera dal PCI togliattiano – nonostante la personale conoscenza delle realtà sovietica che aveva il Migliore – fece da spartiacque nella autentica partita per la democrazia che si giocò il 18 giugno del 1948, con a far da referente emblematico il colpo di stato compiuto in Cecoslovacchia, anticipo di quella cortina di ferro destinata a imprigionare tanti popoli dell’est.

Inizia allora quel cammino lungo e tormentato che avrebbe portato il PCI a rientrare a pieno titolo nel gioco democratico, via via che consumava al suo interno il mito delle democrazie progressiste, con quella lenta conversione che lo porterà dalla cieca condivisione di una presunta controrivoluzione reazionaria nell’Ungheria del 1956 alla critica aperta nei confronti del soffocamento della primavera nella Cecoslovacchia del 1968. Non è affatto vero che fu Berlinguer a tagliare definitivamente il cordone ombelicale, occorreva che il collasso dell’Unione Sovietica compisse il suo corso, con una accelerazione incontenibile nel disfacimento della rete di paesi satelliti dovuta al crollo del muro di Berlino nel 1989. Fu Occhetto a trarre le ovvie conclusioni, facendo il lavoro sporco non tanto di cambiare nome, ma di liberare i muri dei ritratti di quelli che erano stati i padri nobili, ormai destinati ad annerirsi nel fondo delle cantine; ma, ovviamente – contraddicendo al vangelo ortodosso per cui all’inizio ci fu il verbo, cioè Berlinguer – fu non solo isolato, ma cancellato dalla genealogia del Partito.

A chi rifarsi, dunque? Certo ai pensatori liberaldemocratici, del prefascismo e del post-fascismo, emarginando non solo la trimurti Marx-Engels-Lenin, ma lo stesso Gramsci, per non dire tutto il periodo precedente a un Berlinguer, richiamato assai più per il suo vigore morale che per il suo pensiero. Nel vuoto raggelante dei muri nudi, con in bella mostra i riquadri biancastri lasciati liberi, non restava che enfatizzare ancora di più la propria partecipazione maggioritaria alla resistenza, facendo di questa una parola ed esperienza spendibile contro ogni forza politica, di maggioranza o di opposizione, che, a insindacabile giudizio, venisse considerata contraria alla resistenza, quindi alla Costituzione, quindi alla democrazia. Così è stata trasformata la festa della liberazione in una festa della resistenza, facendone così una festa divisiva, tutt’al contrario di quella che è regola per gli altri Paesi, che l’hanno individuata nella loro storia come una occasione di autentica unità: per la Germania, che pur ha condiviso la nostra stessa vicenda di nazione sconfitta, è il 3 ottobre, giorno della riunificazione nel 199O; per la Francia è il 14 luglio, giorno della Festa della Federazione del 1790, se pure considerata come quello della presa della Bastiglia; per la Spagna è il 12 ottobre, giorno della scoperta dell’America nel 1492; per gli Usa è il 4 luglio, giorno della Dichiarazione di indipendenza del 1776.

Non mancava che trovargli un inno, in sostituzione di quello nazionale, che al pari del tricolore era troppo legato al nostro Risorgimento, con una recuperata unità all’insegna di Casa Savoia, quindi tale da dar l’dea di una continuità piuttosto che una rottura traumatica. E alla bisogna rispondeva pienamente “Bella Ciao”, una canzone orecchiabile, ma di origine oscura, di cui si dubita che sia stata mai usata durante la resistenza, fino a trovare la sua base di lancio al Primo festival mondiale della gioventù democratica tenuto in quella autentica oasi di libertà quale era la Praga del 1947. Col che non si nega che con la definitiva dissoluzione dell’utopia comunista, sia venuta a sostituire l’Internazionale, come canzone di protesta contro la limitazione delle libertà e la crescita delle disuguaglianze.

Una cosa è sicura: che questa mitizzazione della resistenza come lotta di popolo è servita per ridimensionare l’esperienza fascista, accentuandone la natura repressiva, tollerata ma non condivisa dalla maggioranza, sì da trasformare la stessa guerra partigiana da reazione elitaria a espressione corale; ma con questa sorta di auto-assoluzione, si è finito per non cogliere la vera natura dei regimi autoritari di massa, capaci di guadagnare una aderenza diffusa e radicata. La questione che si ripropone è quella fra libertà e sicurezza, con un equilibrio perennemente instabile anche in un sistema democratico, come è ben possibile trovarne un lontano riscontro pur in questi giorni, con l’imposizione di un regime di emergenza privo di qualsiasi fonte di legittimazione.

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