Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Giuseppe Lenzi
Egregio direttore, scrivo a nome di mio padre che prima di morire (ha 87 anni) sente il dovere e l’onore di raccontare anche un’altra verità su quei giorni: cosa è accaduto a Bologna nell’aprile del ’45. Il nostro Paese sarà uscito dalla guerra civile (sono passati 77 anni) solo dopo che avrà fatto verità: solo sapendo che sono successe anche cose diverse dalla storia che ha fatto comodo politicamente raccontare, solo nella consapevolezza che ci sono stati galantuomini e martiri in entrambi gli schieramenti, solo così potranno essere autentici e credibili i valori di libertà, democrazia, giustizia sui cui si fonda il Paese. Grazie direttore per l’ attenzione e grazie se avrete la cortesia di dare un po’ di spazio anche al “sangue dei vinti”. Giuseppe Lenzi, a nome di Pierluigi Lenzi
Fra poco quelli della mia generazione non potranno più testimoniare cosa accadde a Bologna nei giorni della liberazione, ma rimarrà solo la storia tramandata, scritta dai vincitori, come è sempre successo… La liberazione è stata anche (non solo ovviamente) occasione di eliminazione dei nemici “borghesi” ad opera di partigiani comunisti, per sostituire la classe dirigente e fare la “rivoluzione”: a Bologna e dintorni commisero innumerevoli omicidi che devono essere ricordati. Certa stampa li definì “incresciosi incidenti”, ma spesso erano preordinati perché nelle cellule comuniste esistevano elenchi delle persone da eliminare.
Furono uccisi il direttore dell’azienda del gas, l’ingegnere Cuno della Timo, Edoardo Weber, grande inventore e capitano di industria, che fu sequestrato in fabbrica e mai ritrovato (alla Certosa, nella tomba fatta costruire dalla moglie, signora Bolelli, c’è solo lei!). I tre fratelli Ducati Bruno, Adriano, Marcello erano già stati spinti da alcuni partigiani contro il muro del cortile della loro fabbrica per essere fucilati quando entrò casualmente (per chiedere una informazione) un camion di militari polacchi… che li salvarono. La Ducati era l’industria più grande di Bologna, con 8 mila dipendenti, mensa aziendale e asilo nido interno (fatto eccezionale per l’epoca). I fratelli Ducati a loro spese avevano fatto prolungare fino a Borgo Panigale le rotaie del tram che erano ai due lati della via Emilia. Per invidia, stupidità e non si capisce per quale altro demerito, politica e banche non finanziarono la ricostruzione dello stabilimento (spesa anticipata dai Ducati per poter ricominciare prima possibile a lavorare!), che era stato gravemente danneggiato dai bombardamenti. Non furono riconosciuti i danni di guerra, con conseguente fallimento e smembramento dei vari settori di produzione: condensatori, valvole, ottica, macchine fotografiche (microcamera Ducati), radio, citofoni, calcolatrici (Duconta), rasoi elettrici, meccanica, strumenti di misura. Adriano Ducati era uno scienziato, un progettista geniale, lasciò Bologna, andò negli Stati Uniti, richiesto da Von Braun come collaboratore per realizzare il vettore che doveva andare sulla luna, che poi raggiunsero.
Ai più giovani è difficile far capire il clima di vendetta mortale che si era creato: un amico più grande di me, si chiamava Goberti, giocava a rugby e lavorava alla Weber, partì volontario per l’Africa e fu uno dei pochi superstiti di Bir El Gobi (“mancò la fortuna, non l’onore!”), fu rimpatriato e ritornò al lavoro. Per un mese lo minacciarono di morte, quando alla sera sarebbe uscito per tornare a casa. Poi per fortuna col passare del tempo fu ristabilita un po’ di legalità.
Mio padre, l’ingegnere Giuseppe Lenzi, era il direttore dell’Istituto Autonomo Case Popolari. Fu sequestrato il 24 aprile pomeriggio in ufficio da due partigiani (inquilini) armati di mitra con un ordine di comparizione del Comando 7 Gap. L’Istituto era in via Santa Margherita 2: fu condotto attraversando il centro di Bologna in via Magarotti (ora via de’ Bersaglieri), alla fine del portico dei Servi. Ho rifatto mentalmente tante volte quel tragitto: piazza Celestini, via D’Azeglio, piazza Maggiore davanti a San Petronio, portico del Pavaglione, via Rizzoli, due Torri, Strada Maggiore. Ricordo che quelle poche volte che sono uscito con mio padre lo salutavano tutti, quindi in quella occasione lo videro sicuramente decine di persone. Lo seguì a distanza un collega dell’ufficio tecnico: riferì a mia madre che entrarono in caserma. Fu trovato ucciso il giorno dopo in via Scandellara con l’ispettore dell’Istituto, Bruno Domenichini, l’impiegata Ester Verdelli e l’assistente Luigi Scanabissi e altri tre irriconoscibili. Rubarono a mio padre l’orologio Longines (di acciaio!), le scarpe, il vestito (rivoltato! Nel taschino il portamine giallo e il regolo calcolatore): il bottino dei briganti!
La città gli doveva molto: aveva formato una squadra di lavoratori entusiasti e l’Istituto dal 1930 ai primi del ’40 riuscì a costruire 129 fabbricati in via Casarini, via Malvasia, via dello Scalo, via Pier Crescenzi, alla Bolognina, le Popolarissime di via Libia (la Cirenaica), tutto il villaggio di case bianche in via ora Irma Bandiera angolo via Andrea Costa (già Duca d’Aosta) in un solo anno. Pochissimi erano rimasti senza un tetto! Ma chi non aveva più diritto alla casa popolare, salvo le “morosità pietose” previste nello statuto, o chi non rispettava le regole della civile convivenza, veniva mandato via.
Spararono a mio padre appoggiandogli la canna di un’arma vicino al naso. Il proiettile provocò un foro di uscita con sfondamento della calotta cranica, che vidi molti anni dopo quando fu eseguita la riduzione dei resti. Aveva un carattere intransigente con se stesso e probabilmente pretendeva molto dagli altri. Ricordo di aver giocato con lui, come avrei voluto, poche volte: non ha mai fatto le ferie, tornava tardi la sera (ma io ero già a letto) e usciva presto la mattina. Non avevamo una casa nostra, ma eravamo in affitto da un privato: perché non si potesse neanche pensare che si fosse approfittato della sua posizione. Cose che oggi fanno quasi sorridere nella loro onestissima follia. Mia madre non percepì alcuna pensione, perché il babbo non aveva maturato l’anzianità, né si era messo in tasca nulla oltre lo stipendio… doveva essere così.
Mio padre aveva 43 anni, si era laureato a 23 col massimo dei voti. Andò a lavorare per cinque anni a Genova presso l’impresa Assereto Schmidt, specializzata in costruzioni in cemento armato, che ebbe l’appalto dei cementi armati del Littoriale, della piscina coperta e scoperta, all’epoca il lavoro più importante a Bologna. Poi per rimanere a Bologna partecipò e vinse il concorso per la direzione tecnica dell’Istituto Case Popolari e a 30 anni fu nominato direttore generale. Probabilmente non capì perché dopo aver lavorato tanto e bene potesse essere ucciso da un cialtrone: era irrazionale e assurdo! Memorie spaventose mi ritornano incancellabili alla mente: l’immagine della montagna di casse di tutti i morti ammazzati, anche fuori nel cortile dell’Istituto di Medicina Legale in via Irnerio e sul marciapiedi, perché dentro non c’era più posto! Il puzzo di morto e di creosoto…
Una donna che si chiamava Cesira, comunista, che veniva ad aiutare quando si faceva il bucato, saputa la fine che aveva fatto mio padre, confidò a mia madre di aver saputo che il nome di mio padre era incluso in una lista di persone da eliminare in una cellula di via San Vitale e di aver commentato loro “avi mazzé un galantomen” e di essere andata a San Luca…
Dopo l’uccisione di mio padre molti non ci salutavano più, forse per paura, perché compromettente. Si provava una sensazione dolorosa indescrivibile. Nella disperazione di mia madre (malata da tempo morì pochi anni dopo, nel 1951) si riconobbero i veri amici: in particolare ci aiutò l’ingegner Mario Agnoli, amico di mio padre e ultimo podestà di Bologna, che mi presentò per un lavoro (avevo 16 anni e non sapevo fare molto) presso una industria locale. Riuscimmo a sopravvivere solo nella consapevolezza di essere profondamente delle persone per bene e di non aver nulla di cui vergognarci.
Pochi sanno che l’ingegner Agnoli, padre Acerbi (domenicano), il cardinale Nasalli Rocca, ottennero nel 1944 dal generale Kesserling del comando tedesco la dichiarazione di Bologna Città Ospedaliera, per aver realizzato entro le Vecchie Mura moltissimi ospedali: tale accordo fu rispettato sia dai tedeschi che dagli americani, che non bombardarono più la città, salvaguardando così molte vite e monumenti. Una ventina di anni fa, in occasione dell’anniversario dell’entrata dei polacchi a Bologna, è stata scoperta una lapide nel convento di San Domenico che ricorda questo pregevole avvenimento, poco riportato dai giornali, che riconosceva dopo tanti anni che anche tra i fascisti c’erano delle persone per bene…
Pierluigi Lenzi