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A Baghdad un nuovo premier che non piace a Teheran. E gli americani sono ancora in Iraq

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Sono passati quattro mesi da quando il generale Qassem Soleimani è stato ucciso da un drone americano in Iraq. Così come sono passati mesi dalla risoluzione del Parlamento iracheno che chiedeva il ritiro delle forze americane dal territorio iracheno. In questi mesi che cosa è successo? È successo che gli americani sono ancora in Iraq e soprattutto che a Baghdad c’è un nuovo governo, che certamente – al di là dei sorrisi di facciata e del sostegno pubblico – non ha reso felice nessuno a Teheran.

A guidare il nuovo governo iracheno è Mustafa al-Khadimi, ex capo dei servizi segreti iracheni, che è riuscito ad arrivare alla guida del governo approfittando delle drammatiche divisioni interne. È lo stesso al-Khadimi, per la cronaca, che poco dopo la morte di Soleimani è stato accusato di aver complottato con gli Stati Uniti per eliminare il capo della Forza Qods iraniana. Lo stesso al-Khadimi che, prima di diventare capo dei servizi segreti, ha svolto la professione di giornalista, si è pubblicamente opposto a Saddam Hussein e nel 1985 ha riparato prima in Germania e poi in America, per non essere ucciso.

Lo stesso programma di governo di al-Khadimi non avrà certamente fatto sorridere nessuno nella Repubblica Islamica. Perché, se per un verso parla molto vagamente di impedire che il territorio iracheno sia usato “per aggressioni a Paesi vicini e divenga scontro di battaglia per conflitti regionali e internazionali”, non insiste sul ritiro americano, ma esplicita chiaramente la richiesta che “per quanto concerne le relazioni esterne, gli Stati devono comunicare unicamente con le istituzioni ufficiali, secondo le norme della diplomazia internazionale, e non con individui e entità non ufficiali”. Il riferimento è chiaro: l’Iran e le milizie sciite filo-Teheran, racchiuse nella Unità di Mobilitazione Popolare (le famose PMU). Da oggi in poi, quindi, se Teheran vuole qualcosa da Baghdad, lo deve fare attraverso il governo e attraverso i canali diplomatici e militari ufficiali. Infine, il programma di governo prevede una forte lotta alla corruzione, la stessa che ha portato in piazza centinaia di iracheni infuriati, contro cui le milizie paramilitari sciite filo-iraniane hanno sparato spesso impunemente. Lotta alla corruzione in Iraq, quindi, fa ormai in primis rima con estromissione delle interferenze del regime iraniano dal Paese arabo.

E che al-Khadimi faccia sul serio lo ha già dimostrato: l’11 maggio scorso, in una operazione inaspettata quanto rara, le forze di sicurezza irachene sono penetrate nella sede del partito filo iraniano Thaar Allah, nella Provincia di Basra, dove hanno arrestato cinque miliziani sciiti (e confiscato armi e munizioni), accusati di aver sparato a dei manifestanti da un palazzo (provocando una vittima). L’operazione, come è stato scritto nero su bianco in un tweet pubblicato dall’account del governo iracheno, è stata diretta personalmente dal primo ministro Mustafa al-Khadimi. Tweet che poi al-Khadimi ha voluto riscrivere in inglese, anche sul suo account ufficiale personale. Sempre dal suo account ufficiale, al-Khadimi ha voluto dare conto di un incontro con l’ambasciatore iraniano in Iraq, ma ha voluto anche evidenziare più volte di aver ricevuto una chiamata di congratulazioni da parte del presidente Trump, vi aver ricevuto l’ambasciatore americano in Iraq e di aver parlato con il segretario generale della Nato, con il ministro degli esteri inglese Raab e con i più importanti leader arabi sunniti della regione, tra cui il presidente egiziano al-Sisi e lo sceicco Mohammed Bin Rashid al Maktoum, vice presidente e premier degli Emirati Arabi Uniti, oltreché Emiro di Dubai. Insomma, non propriamente una lista di grandi amici dell’Iran…

A tutto questo, va aggiunto il fatto che – sebbene miracolosamente contenuta in termini di vite umane – gli iracheni sono infuriati con gli iraniani per la crisi del coronavirus, considerata esportata da Teheran non solo per mezzo del pellegrinaggio religioso, ma anche attraverso i foreign fighters sciiti che la Repubblica Islamica manda ormai in Iraq da anni. Insomma, non proprio un quadretto ideale per la Repubblica Islamica, sempre più costretta a battere in parziale ritirata.

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