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A Bruxelles, la caccia al polacco non conosce più regole: armi legali e illegali per piegare Varsavia (e Budapest)

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La crisi oggi in corso sul Recovery Fund è stata innescata da un nuovo “regolamento circa un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione”, approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio, ma punitivo, discrezionale e costruito su una interpretazione dei Trattati infondata. Come abbiamo visto ieri su Atlantico Quotidiano.

Oggi vedremo come si sia giunti a tanto.

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Tutto nasce da uno dei ‘valori’ sui quali l’Ue si fonderebbe ed iscritti nei Trattati: il valore “dello Stato di diritto” (2 Tue). Pur mancandone una definizione, sulla base della mera enunciazione la Commissione ha costruito, negli anni, una vera e propria offensiva contro la Repubblica di Polonia e l’Ungheria. Limiteremo l’analisi al caso polacco.

La Commissione ha seguito due vie. La prima, il ricorso alla Corte europea di giustizia (258 Tfue), con successo. Quattro volte la Corte ha dato ragione alla Commissione (tre volte con sentenza, una volta con ordinanza), la quale sosteneva che Varsavia avesse attaccato l’indipendenza della magistratura polacca: avendo creato una Camera Disciplinare composta da giudici nominati dal Parlamento; avendo affidato a quest’ultima il potere di prolungare l’età di pensionamento di singoli magistrati; avendo abbassato l’età pensionabile, prima in misura diversa per giudici donne e giudici uomini, poi in misura uguale per entrambe giudici donne e giudici uomini. In parte, la Polonia ha risposto modificando le proprie leggi, ma non sempre; né la Commissione può ottenere di più, in quanto la Corte può imporre unicamente sanzioni pecuniarie e la Polonia proseguire la propria ribellione.

La seconda via seguita dalla Commissione è stata la sospensione di “alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale Stato membro in seno al Consiglio” (7 Tfeu – norma introdotta col Trattato di Amsterdam del 1997 su ispirazione dello Statuto del Consiglio d’Europa): il 20 dicembre 2017, la Commissione ha chiesto al Consiglio la sospensione della Polonia; ma senza alcun costrutto visto che, da allora, la pratica giace nella fase istruttoria.

E perché? Non certo per l’altezza della soglia fissata dal Trattato (“evidente rischio di violazione grave … violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro”): la Commissione ha superato questa soglia abbondantemente e da una pezza. Piuttosto, per la semplice ragione che la sospensione richiede che il Consiglio abbia preventivamente provveduto a “constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente” del valore dello ‘Stato di diritto’ … ma all’unanimità, sia pur senza la partecipazione dello Stato membro accusato (354 Tfue): orbene, la Polonia ha ottenuto l’appoggio dell’altro Stato membro accusato di ‘violazione del principio dello Stato di diritto’ (l’Ungheria), i due si sono promessi reciproca copertura e la Commissione è immobilizzata.

L’unico effetto dell’avvio di tale procedura di sospensione di ‘alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro’ è stato permettere alla Corte di dar seguito ad alcune domande di pronuncia pregiudiziale presentate da diverse corti nazionali. Nel luglio 2018, con sentenza (e grande sollecitudine, visto che l’istanza era del precedente marzo), una corte irlandese, che rifiutava l’estradizione in Polonia di un sospetto narcotrafficante, veniva lasciata libera di decidere. Nell’ottobre 2018, una corte spagnola, che giudicava l’estradizione di un condannato per guida in stato di ebbrezza resosi latitante, interrogava la corte polacca richiedente circa la sua indipendenza, ottenendo soddisfazione non da ultimo in quanto la condanna era del 2013, dunque precedente alle riforme del sistema giudiziario. Il 10 marzo 2020, una corte tedesca semplicemente rifiutava di estradare un polacco accusato di frode. Il 31 luglio 2020, una corte olandese presentava domanda di pronuncia pregiudiziale circa la estradizione di due persone (uno almeno narcotrafficante) e, più in generale, bloccava qualunque estradizione verso la Polonia; ottenendo un sollecito riscontro dell’Avvocato Generale il quale, il 12 novembre 2020, chiedeva di rinviare la decisione alla corte appellante. Questi quattro casi configurano, in pratica e verso la Polonia, la sospensione del regime europeo di estradizione: un inciampo certamente, ma non sufficientemente rilevante per indurre il governo di Varsavia alla resa.

Di tutto ciò, la Commissione è naturalmente libera di sentirsi insoddisfatta. Ma resta che questi sono i rimedi consentiti dai Trattati: questi, non altri.

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La Commissione ne è talmente conscia, da averlo scritto fin dal 2014: “Gli attuali meccanismi e procedure dell’Ue non sono sempre idonei ad assicurare una risposta efficace e tempestiva alle minacce allo Stato di diritto”. Ma doveva salvare la faccia e, così, lo scrive essa stessa, “la Commissione e l’Ue si sono viste costrette a escogitare soluzioni ad hoc”.

Quali? Una procedura detta “quadro dell’Ue per rafforzare lo Stato di diritto”. Una mera procedura, che parte da un “parere sullo Stato di diritto”, passa da una “raccomandazione sullo Stato di diritto” e sfocia nella sospensione di ‘alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in questione dall’applicazione dei trattati’ (ex-7 Teu e che abbiamo appena visto). Una mera procedura di ‘dialogo’, uno ‘strumento preventivo’ che, ovviamente, “non impedisce alla Commissione di esercitare i poteri conferitile dall’articolo 258 del Tfue … né impedisce l’attivazione diretta dei meccanismi previsti dall’articolo 7 del Tue”, cioè gli unici due rimedi consentiti dai Trattati. Così la Commissione: “Pur non escludendo future evoluzioni dei trattati in questo settore, tale quadro si fonda sulle competenze conferite alla Commissione dai trattati vigenti”, “rappresenta il contributo della Commissione al rafforzamento della capacità dell’Ue di garantire una tutela efficace e uniforme dello Stato di diritto”. Leggi: altro non possiamo fare.

In sei anni, l’unico risultato di questa particolare procedura è stato figliare un ennesimo papello unionale, detto “Relazione sullo Stato di diritto 2020”, del 30 settembre 2020, interessante solo come memoria di parte della Commissione. In particolare, il capitolo riguardante la Polonia ripete stancamente l’elenco delle lagnanze, alcune delle quali già oggetto di procedura di infrazione.

E, dalla Commissione, sulla Polonia è tutto.

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Per inciso, troviamo più interessante la lettura del capitolo riguardante l’Italia, ricco di perle. A mero titolo di esempio: la Commissione, mostrandosi evidentemente all’oscuro della vicenda Palamara, si pregia di compiacersi del “solido quadro legislativo a salvaguardia dell’indipendenza della magistratura, compresa quella dei pubblici ministeri”; “sussistono preoccupazioni in merito all’indipendenza politica dei media italiani”, non già per l’asfissiante occupazione governativa della Rai e dei quotidiani, bensì “poiché mancano disposizioni efficaci per la prevenzione dei conflitti di interesse”; “alcune ong sono oggetto di campagne denigratorie, specialmente su questioni come la migrazione”. Dal che si può serenamente dedurre che, a un prossimo governo italiano non espressione del Pd organico all’unionismo ortodosso, la Commissione riserverà le stesse uguali attenzioni di ‘Stato di diritto’ che oggi riserva alla Polonia.

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Fin qui la Commissione. Ma la scena è occupata pure dal Parlamento europeo, che della questione ha dibattuto a più riprese: ad esempio, il 19 gennaio 2016, il 13 aprile 2016, il 14 settembre 2016, il 15 novembre 2017, il 4 luglio 2018.

Come già la Commissione, così pure il Parlamento ha deciso di escogitare ‘soluzioni ad hoc’. E ha pensato di appoggiarsi su un altro principio stabilito nei Trattati: il ‘principio della buona gestione finanziaria’ (la Commissione dà “esecuzione al bilancio … in base alle disposizioni del regolamento … in conformità del principio della buona gestione finanziaria” – 317 Tfue), compiendo una scelta che non avrebbe potuto essere peggiore. Infatti, il tema della “tutela degli interessi finanziari” è ben noto alla Commissione (e pure all’Olaf – Ufficio europeo lotta anti-frode), la quale, però, si era ben guardata dall’utilizzarlo nella propria offensiva contro la Polonia … dal momento che, per la violazione del “principio della buona gestione finanziaria”, i Trattati già conoscono il rimedio.

Anzitutto a livello di Stati membri, ai quali viene chiesto di adottare “le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari” (325 Tfue) … il che la Polonia certamente già fa; né si aggiunge alcunché circa la natura di tali ‘misure che lo Stato Membro adotta per combattere contro la frode che leda i propri interessi finanziari’.

In secondo luogo, a livello di Unione, alla quale viene chiesto di perseguire “la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione” (325 Tfeu) “irregolarità, frodi o violazioni degli obblighi”. Così, negli ultimi anni, l’Unione si è dotata di innumerevoli strumenti di tutela: il nuovo Regolamento Finanziario; la nuova Strategia anti-frode; la Direttiva PIF (che penalizza le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Ue); la Direttiva sulla segnalazione di irregolarità (che stabilisce norme minime di protezione degli informatori); ha nominato il primo procuratore europeo (EPPO) (si occuperà di indagare, perseguire e portare in giudizio gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione). Tutti questi strumenti riguardano singole procedure di aggiudicazione o di attribuzione; in perfetta coerenza con il divieto a “ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità” (18 Tfue). Fa, quindi, ridere il Parlamento europeo quando prova ad usare i menzionati esistenti regolamenti, per giustificare la propria pretesa di interrompere/sospendere/correggere l’insieme indistinto delle procedure di aggiudicazione o di attribuzione in uno Stato membro.

La questione è semplice: i Trattati conoscono mezzi per perseguire gli Stati membri altri rispetto al bilancio e non consentono che il bilancio venga usato per perseguire gli Stati membri.

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Insomma, a Bruxelles si pratica da anni la caccia al polacco. Ha cominciato la Commissione, ma con armi lecite: il ricorso alla Corte europea di giustizia ex-258 Tfeu (che sfocia in sanzioni esclusivamente pecuniarie) e la richiesta di sospensione ex-7 Teu (che è bloccata dalla Polonia, da anni, in fase istruttoria). Ha continuato il Parlamento, ma con armi illecite: arrogando all’Unione il potere, contrario ai Trattati, di decidere la interruzione/sospensione/correzione dell’insieme indistinto dei pagamenti.

Questo è il modo in cui si è giunti al nuovo “regolamento circa un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione”, punitivo, discrezionale e costruito esso stesso su una interpretazione dei Trattati infondata, del quale abbiamo riferito ieri su Atlantico Quotidiano.

La caccia al polacco non conosce più regole.