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A carte scoperte, Pechino lancia la sua sfida per soppiantare la leadership Usa: è ora di scegliere con chi stare

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Cina mai stata così impegnata su tanti fronti contemporaneamente, il PCC ha una strategia globale basata sulla convinzione del declino inevitabile delle democrazie occidentali e della potenza americana, un piano di sostituzione del modello liberale con quello cinese… Gli Usa non intendono abdicare, mentre l’Europa a trazione tedesca si sfila. Se non è una nuova Guerra Fredda, ci assomiglia molto. Possiamo decidere di combatterla o di lasciar fare, ma dovremo farci i conti tutti

Sarà ricordata come la settimana in cui la Cina ha svelato tutte le carte. Nessuno, a parte le guardie rosse fuori corso già comodamente installate nei parlamenti e nelle redazioni occidentali, d’ora in poi potrà far finta di nulla senza essere accusato di complicità. In fondo, è un bene che si faccia chiarezza, che si sappia esattamente da che parte stanno politici, intellettuali, imprenditori e giornali. Democrazia o dittatura, o di qua o di là. C’è bisogno di semplificare in quest’epoca confusa.
Dei contenuti della legge sulla sicurezza nazionale, su cui l’Assemblea Nazionale del Popolo ha votato (ovviamente all’unanimità) giovedì scorso, mi sono già soffermato in un precedente articolo. Fra poche settimane sarà tutto pronto per l’assimilazione di Hong Kong allo stato di polizia vigente nella madrepatria: copertura “legale” dell’illegalità strutturale che rappresenta in se stesso un regime autoritario, fine dei già limitati spazi di critica e di dissenso, agenti degli apparati di sicurezza e spionaggio destinati permanentemente nell’ex colonia britannica, delazioni, arresti, censura e la minaccia costante di una repressione su larga scala. Sono anni che il Partito Comunista Cinese (PCC), Xi Jinping in testa, prepara il terreno per la resa dei conti finale. Solo adesso possiamo leggere nel contesto adeguato quella strana iniziativa che fu il tentativo di introduzione di una legge di estradizione poi ritirata dalla proconsole Carrie Lam: Pechino voleva saggiare il terreno e mandare un messaggio che nessuno all’epoca colse. In realtà al Partito non interessava portare gli hongkongers ribelli in Cina, quel che voleva era portare la Cina a Hong Kong: “Bisogna essere inflessibili nei principi ma flessibili nella tattica“, non si stancava di ripetere ai quadri dirigenti il leader supremo. Perché ci ostiniamo a non credere alle parole dei dittatori? Basta ascoltare i loro portavoce, in fondo. Al margine dei lavori del “parlamento” cinese i servizi legali informavano puntuali che con la nuova legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino gli imputati “non saranno trasferiti” nella Cina continentale ma saranno processati a casa loro. Una volta scagliata la bomba che fonde il sistema giudiziario della SAR (regione amministrativa speciale) con quello nazionale, che bisogno c’è di estradare?

Hong Kong è la preda perfetta nella battuta di caccia organizzata dal Politburo, basta leggere i social media addomesticati della madrepatria che traboccano vendetta contro un territorio che ai cinesi è sempre risultato indigesto: lo vedono spocchioso, ribelle, ingrato. È la miccia ideale per un’iniezione di nazionalismo di cui Xi Jinping ha disperatamente bisogno, dopo il disastro di immagine del coronavirus e in piena stagnazione economica con gravi ricadute sull’occupazione. Dalle due sessioni legislative non è emerso nessun piano concreto per far fronte alle conseguenze sociali della crisi sanitaria, né sono state adottate misure concrete di stimolo o di protezione per i più colpiti. Su questo terreno la leadership cinese sta segnando il passo e ha bisogno di alimentare la fiamma dell’orgoglio nazionale, calcando la mano sulle “ingerenze straniere”, soprattutto americane: “Non importa quanto gli Usa cerchino di far pressione sulla Cina giocando la carta di Hong Kong – scrive il Global Times – Washington sarebbe troppo ingenua se pensasse di poter smuovere la decisa volontà collettiva del governo cinese”. Una volontà collettiva di cui, peraltro, da tempo non si ha più notizia a Zhongnanhai. La Cina è sempre più allineata al Xi Jinping-pensiero e vani paiono gli sforzi del premier Li Keqiang di abbassare i toni sulle questioni scottanti (economia, HK, Taiwan). La linea è tracciata, indietro non si torna, e si strangola Hong Kong anche per non dare aria a eventuali rivendicazioni interne. “Xi è nervoso”, osserva Chris Patten, ultimo governatore britannico dell’ex colonia, “la sua leadership non è così salda e deve rilanciare costantemente”. Probabile. Però il PCC oggi ha una strategia globale che nasce dalla convinzione del declino inevitabile delle democrazie occidentali e della potenza americana, un piano di sostituzione del modello liberale con quello cinese, qualunque cosa sia. Il 23 aprile scorso Xi Jinping visita l’università Jiaotong di Xi’an, la città dell’esercito di terracotta e si dirige così agli studenti: “I grandi cambiamenti nella storia avvengono sempre dopo enormi disastri. La nostra nazione cresce e si trasforma nell’avversità e nella difficoltà“. Quando cominceremo a prendere sul serio le parole dei dittatori?

O di qua o di là, scrivevo all’inizio. Venerdì pomeriggio, due scenari: Bruxelles e Washington. In teoria una casa comune, la democrazia liberale. In pratica, da decenni, poli separati. Josep Borrell, socialista spagnolo che il caso e i giochi di palazzo hanno proiettato al vertice della diplomazia europea, riunisce in una conferenza stampa tutto il peggio della doppiezza comunitaria. La Cina è un rivale sistemico, certo, quel che fa con Hong Kong non è gentile ma noi continueremo a comportarci come se nulla fosse: gli investimenti e gli scambi commerciali non sono a rischio, precisa Borrell, “la risposta dev’essere proporzionata, siamo alleati, avversari, concorrenti“. Tutto e niente, al solito. È arrivata una telefonata da Berlino dopo l’entrata di Volkswagen nel comparto dell’auto elettrica cinese? Forse non ce n’è nemmeno bisogno, l’appeasement è un fattore strutturale dell’Unione europea. La risposta proporzionata in realtà non esiste, l’Europa a trazione tedesca si sfila senza una strategia da contrapporre a quella espansiva del Partito Comunista Cinese.

Poche ore dopo, dal giardino delle rose della Casa Bianca il presidente Trump si riferisce invece alla nuova legge imposta da Pechino come a “una tragedia per la popolazione di Hong Kong, della Cina e del mondo intero“. Nel confermare il prossimo ritiro dei privilegi commerciali e finanziari ancora vigenti, nel denunciare la rottura unilaterale degli accordi sino-britannici e nell’annunciare sanzioni nei confronti degli ufficiali direttamente coinvolti nell’erosione dell’autonomia, il primo cittadino americano ricorda che Hong Kong doveva essere il futuro della Cina e non il contrario. In sostanza, la Cina non può fagocitare la regione pretendendo allo stesso tempo che se ne rispetti l’eccezionalità perduta. Un discorso ispirato che nella città assediata aspettavano in molti da tempo, dai toni bushiani, lontano dalle effusioni e dagli apprezzamenti troppe volte dedicati alle sue controparti autoritarie (“il mio amico Kim Jong-un” su tutti). Parole che non nascono per caso, precedute da segnali inequivocabili di un cambio radicale di strategia. Quasi in contemporanea Pompeo spiegava in un’intervista a Fox News che il problema ovviamente non erano i cinesi ma un regime tirannico che, come ai tempi dell’Unione Sovietica, poneva a rischio la sicurezza degli Stati Uniti. Il giorno prima era stata invece la dichiarazione congiunta dell’alleanza anglosassone (Usa, Australia, Canada e Gran Bretagna) a riaffermare la consistenza della posizione occidentale, documento su cui l’Unione europea – si saprà più tardi – aveva rifiutato di apporre la sua firma affermando di averne in cantiere uno tutto suo. Conviene aspettare seduti. Ma è davvero sorprendente come siano passate praticamente inosservate le sedici pagine che decretano di fatto la fine del paradigma diplomatico americano nei confronti della Cina, come l’abbiamo conosciuto da Nixon ad oggi: un nuovo Approccio strategico alla Repubblica Popolare Cinese che liquida l’engagement decennale come inutile e controproducente, accusa il regime di Pechino di averne approfittato per espandere la sua influenza anti-democratica e riafferma la necessità di proteggere gli interessi politici ed economici americani dalle pratiche illegali della superpotenza comunista. Per chi dice che l’America non crede più nella sua funzione di guida del mondo libero c’è parecchio materiale a confutazione da studiare. C’è poi uno snodo essenziale che solo a Washington (e a Londra) sembrano aver colto: non è solo la libertà di Hong Kong in gioco, ma quella di un miliardo e mezzo di cinesi costretti da 70 anni al conformismo o al silenzio, quella di Taiwan e, per estensione, di gran parte dell’occidente democratico che osserva distratto o ascolta ammaliato. Ovviamente partirà presto la litania che sempre ha accompagnato tutte le iniziative anti-autoritarie americane, pacifiche o belliche che siano: così si favorisce lo scontro, si irrita l’avversario, si mette a rischio la sicurezza collettiva. C’è già chi ha scritto che l’uscita degli Stati Uniti dall’Oms “lascerà sola Taiwan”, come se la sua presenza ne avesse invece garantito il rispetto da parte di Pechino. Mai che venga in mente che forse rimanere all’interno di un’organizzazione saldamente in mano cinese significa semplicemente legittimarne la condotta, fornire una copertura di rispettabilità a chi l’ha già persa da tempo. Come se Taiwan si difendesse meglio incagliandosi in inutili dispute burocratiche che mostrando fermezza contro un avversario sempre più minaccioso.

Non facciamoci illusioni, Hong Kong è persa. Si potranno mantenere posizioni di principio più o meno coerenti ma nessuno farà la guerra per un territorio che, volenti o nolenti, la Cina comunista si è ripresa con il beneplacito dell’occidente più di vent’anni fa. Non si morì per Berlino Est, non lo si farà nemmeno stavolta e Pechino lo sa, ha calcolato il rischio. Taiwan invece è un’altra storia. C’è uno stretto, ci sono manovre militari, c’è una Cina democratica che riflette quel che dall’altra parte potrebbero essere e non sono, ci sono minacce sempre più esplicite da parte del regime. Mentre i sinologi nostrani sono impegnati nell’esegesi dei termini (Li Keqiang ha usato o no l’espressione “annessione pacifica“?), parlando in occasione del quindicesimo anniversario della legge anti-secessione, il generale cinese Li Zuocheng ha dichiarato testualmente a proposito dell’isola “ribelle”: “Non possiamo promettere di abbandonare l’uso della forza, e ci riserviamo l’opzione di adottare tutte le misure necessarie per stabilizzare e controllare la situazione nello Stretto“. Li Zuocheng non è uno qualsiasi: veterano della guerra sino-vietnamita, membro di spicco della Commissione Militare Centrale, sopra di lui solo il presidente e pochi altri. E infatti le sue parole ricalcano alla lettera quelle pronunciate da Xi Jinping nel gennaio 2019: prima un avvertimento politico, adesso uno militare. La guerra per Taiwan è possibile, anche se non imminente. Pechino vede Taipei come una succursale di Washington, come e più di Hong Kong, in una sindrome da accerchiamento tipica dei regimi autoritari, per grandi e potenti che siano. La rieletta presidente Tsai Ing-wen è stata piuttosto chiara nel suo supporto agli hongkongers, a cui ha offerto assistenza sanitaria e asilo. Ma deve muoversi con cautela. L’isola è certamente alleata di Hong Kong e possibile terra d’approdo per i suoi cittadini in fuga, ma potrebbe anche trarre beneficio da un’eventuale perdita di centralità della regione speciale. Un discreto rompicapo. Taiwan è un cul-de-sac: se gli Stati Uniti mantengono le posizioni, i cinesi ne denunceranno la fermezza come interferenza; se abbassano la guardia, il regime ne approfitterà per alzare la posta. Per triste che possa risultare per i suoi cittadini, Hong Kong è oggi il teatro di schermaglie politiche ed economiche che anticipano la vera battaglia per l’egemonia, che prima o poi passerà per Taipei.

La Cina non è mai stata impegnata su tanti fronti contemporaneamente, il che dovrebbe dirci qualcosa sulle reali intenzioni della sua dirigenza: sul mar cinese meridionale lo scontro è su petrolio e gas, con l’Australia Pechino è ai ferri corti da tempo, le dispute territoriali con il Giappone rimangono irrisolte e il confine sino-indiano è sul punto di saltare. Sullo sfondo le presidenziali americane di novembre. Anche se i Dem fanno oggi la voce grossa sui diritti umani in Cina, la sensazione diffusa è che con Biden alla Casa Bianca gli Stati Uniti tornerebbero ad una posizione cedevole nei confronti di Pechino. Al termine di un’intervista a Francesco Bechis di Formiche, Ian Brenner ha lasciato cadere un’osservazione piuttosto rivelatrice: “Se dovessi consigliare il governo cinese, gli direi di puntare su Biden. Con lui alla Casa Bianca ci sono più chance di costruire insieme un ordine mondiale post-americano“. Che, visto da Pechino, vuol dire una cosa sola: un ordine mondiale a trazione cinese. Se non è una nuova Guerra Fredda è qualcosa che ci assomiglia molto. Possiamo decidere di combatterla o di lasciar fare: nel secondo caso la prospettiva di un’espansione dell’autoritarismo su scala globale non sarà più solo un possibile scenario in divenire ma una realtà con cui dovranno fare i conti tutti, compresi i distratti e i complici, le guardie rosse fuori corso e i sinologi prezzolati.

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