In queste drammatiche ore stiamo assistendo alle violente proteste scatenate a Minneapolis dall’uccisione di George Floyd per mano di un agente di polizia. La città è sprofondata nel caos, messa a ferro e fuoco dai rivoltosi che hanno preso d’assalto farmacie, banche e supermercati. Il centro cittadino è avvolto dal fumo e dagli incendi che divampano in sequenza.
Mentre il mondo intero soffia sul fuoco della questione razziale, alla rabbia degli afroamericani si è saldata la violenza ideologica degli “antifa”. Il nostro tentativo è quello di proporre un’analisi razionale, lontana dalla retorica e dalla emotività suscitate dalla brutale uccisione di George Floyd:
1. Quelle immagini indignano e non sono accettabili, sono un’enorme ferita nel cuore di chi le guarda e testimoniano che dal momento della cattura fino al suo drammatico epilogo il protocollo d’ingaggio messo in atto dai poliziotti non fosse legittimo, come ha prontamente denunciato lo stesso Jacob Frey, sindaco di Minneapolis.
Un enorme abuso di potere e della forza da parte di un agente, esecutore materiale del delitto, e del suo collega, responsabile per non averlo esortato a smettere di torturare l’uomo ormai completamente inerme.
2. Leggere un importante atleta dell’NBA ed attivista dal nome altisonante che scrive “we’re hunted”, parlando di caccia ai neri come fossero bestie, pone per chi si occupa di analisi l’obbligo di cercare un riscontro statistico rispetto alla gravità di tali affermazioni.
Tuttavia, guardando ai dati di una ricerca della Michigan State University e dell’Università del Maryland il 55 per cento delle vittime degli scontri a fuoco con funzionari di polizia è bianco, il 27 per cento nero e il 19 per cento ispanico.
Questo dato non rispetta del tutto il ratio della popolazione americana, suddivisa fra 60 per cento bianchi, 13,5 per cento neri e 18 per cento ispanici, ma lo studio dimostra altresì come sia il tasso di criminalità violenta da parte di un gruppo razziale a determinare la maggiore probabilità che gli agenti di polizia ricorrano ad uno strike e, tra il 1980 e il 2008, i dati del Dipartimento di Giustizia riportano che il 51 per cento degli omicidi (tipico esempio di criminalità violenta a cui si fa riferimento) totali commessi negli Stati Uniti sia stato eseguito da afroamericani.
Molto intuitivamente, in casi standard, l’uso della forza letale è più accentuato da parte di un agente a seconda della circostanza e del crimine che si trova a fronteggiare.
3. È estremamente azzardato pensare di trarre conclusioni su una società complessa come quella americana partendo da un caso di crimine individuale.
Gli Stati Uniti sono un Paese di 330 milioni di persone e qualsiasi evento, financo il più spiacevole come in questo caso, accade almeno una dozzina di volte l’anno.
Certamente l’uso della forza letale da parte della polizia è una preoccupazione legittima, così come la domanda se questa sia più frequente nei confronti degli afroamericani, alla quale si è cercato di dare risposta nel punto precedente, ma la copertura mediatica ha un fortissimo ruolo nella percezione che questi eventi possono generare in chi li segue trasformando manifestazioni pacifiche in scontri violenti nel nome di una presunta epidemia di razzismo fra gli agenti di polizia.