La lotta contro il coronavirus non è solo sanitaria: in gioco anche il ruolo della Cina nell’economia globale e la fiducia nel sistema di potere del Partito comunista
Con il passare dei giorni emergono dalla stampa internazionale e da autorevoli studi scientifici sempre più elementi ed evidenze che rafforzano la nostra tesi, già esposta qui su Atlantico una decina di giorni fa: l’epidemia di coronavirus, o meglio la fallimentare gestione dell’emergenza nelle prime cruciali settimane da parte delle autorità cinesi, sta sferrando un colpo micidiale al mito dell’efficienza del sistema Cina e rischia di frustrare le ambizioni di egemonia globale di Pechino. “Potrebbe far deragliare i sogni di Xi Jinping di un Secolo Cinese“, è il titolo di un lungo articolo su Time.
L’immagine della Repubblica Popolare potrebbe mutare drasticamente da superpotenza in grado di sfidare la leadership globale degli Stati Uniti a Paese esportatore di crisi sanitarie, ambientali, sociali ed economiche. In una parola, un Paese non affidabile. Certo, potenzialmente ancora un grande mercato, ma almeno nel breve e medio termine la crisi coronavirus, con l’enorme impatto sull’economia cinese e globale delle drastiche misure adottate dal regime per tentare di contenerla, minerà la fiducia degli operatori economici nel sistema di potere di Pechino, riducendo la cosiddetta “voglia di Cina”. Ci penseranno due volte prima di investire e aprire fabbriche in un Paese che, oltre ad un livello di corruzione ancora troppo alto e ad un livello ancora troppo basso di libertà economica, è troppo frequentemente colpito da pandemie alle quali le autorità rispondono tardivamente. Il costo del lavoro ancora basso sembra essere rimasto l’unico vantaggio, a fronte però di rischi sistemici incompatibili con investimenti di lungo termine. Forse non torneranno indietro tutte le produzioni e i posti di lavoro, come auspicato dal segretario al commercio Usa Wilbur Ross, ma è chiaro che è in gioco il ruolo della Cina nel commercio internazionale e come anello chiave della catena di approvvigionamento globale.
La Hyundai ha annunciato martedì scorso la sospensione della produzione nei suoi stabilimenti in Corea del Sud per la carenza di parti di auto dalla Cina. Ma quanto aspetterà prima di rivolgersi altrove? Anche Foxconn, il principale assemblatore di iPhone, potrebbe spostare parte della sua produzione in India, secondo l’analista Ming Chi Kuo, esperto di Apple citato da StartMag, a causa dell’incertezza della situazione in Cina e dei ritardi nella ripresa a pieno regime del lavoro nelle due fabbriche di Zhengzhou e Shenzhen, nonostante distino più di 500 chilometri da Wuhan, l’epicentro dell’epidemia.
Secondo Bloomberg, “molto probabilmente abbiamo appena assistito al picco della Cina come potenza esportatrice”. Nel terzo trimestre dello scorso anno il 14 per cento di tutti i beni globali esportati veniva dalla Cina, percentuale seconda solo al 15 per cento registrato nell’ultimo trimestre del 2015. Dati che certamente non si ripeteranno nei primi trimestri del 2020, a causa della chiusura della produzione dovuta all’emergenza coronavirus. Anche se i precedenti ci dicono che le epidemie e i disastri naturali in genere tendono ad avere effetti di breve durata sulle economie, seguiti da una rapida ripresa, osserva Bloomberg, nel caso della Cina la crisi sanitaria in atto non è un evento isolato. La capacità di esportazione della Cina era già sotto pressione per il confronto commerciale con gli Stati Uniti e le politiche del presidente Trump, e per le preoccupazioni anche europee di natura sia geopolitica che commerciale, dallo spionaggio alla concorrenza sleale fino ai diritti umani.
Se a ciò aggiungiamo l’emergenza coronavirus e i pesanti interrogativi sulla risposta del governo cinese, conclude l’analisi di Bloomberg, “non è esagerato affermare che dovresti essere coraggioso – o Elon Musk – per costruire una fabbrica in Cina oggi”. La Cina non smetterà certo di essere “l’officina di assemblaggio del mondo, una grande economia e una potenza esportatrice”, ma “per molte ragioni sembra stia accadendo qualcosa di strutturale alle relazioni della Cina con il mondo, a cui si aggiunge ora l’emergenza coronavirus“. Per cui, anche se ne uscirà presto, è difficile che la quota di esportazioni globali cinesi cresca molto oltre. E potrebbe incoraggiare e accelerare un processo di riadattamento globale.
Molte compagnie potrebbero decidere di guardarsi intorno, non solo per rispondere all’emergenza del momento, ma anche per cautelarsi rispetto a crisi future, sanitarie o sociali, e quindi di ricollocare produzioni, cambiare fornitori, scoprendo magari che c’è vita al di fuori della Cina – per esempio in India. Potremmo tutti scoprire che la Cina non è poi così insostituibile come credevamo. Che si può produrre a basso costo altrove, e persino tornare a produrre a costi più alti ma in contesti più affidabili e favorevoli in Occidente (sempre che i nostri governi abbiano la lungimiranza di favorire un ambiente attraente, con meno burocrazia e meno tasse).
Subisce un duro colpo anche l’ambizione di Pechino di rappresentare un modello politico da imitare per il resto del mondo, soprattutto per i Paesi emergenti. Il sistema monopartitico offre “un modello ai Paesi che vogliono accelerare il loro sviluppo mantenendo la propria indipendenza”, dichiarava orgogliosamente Xi Jinping solo pochi anni fa. L’argomento principale a sostegno del regime a partito unico era la sua presunta performance superiore di fronte alle crisi di breve termine e alle sfide di lungo termine rispetto al disordine, alle inefficienze e alla litigiosità delle democrazie occidentali. Una narrazione che rischia oggi di essere travolta dall’epidemia di coronavirus, insieme alla missione di Xi di fare di questo secolo il secolo cinese come il ‘900 è stato il secolo americano.
La leadership dello stesso Xi Jinping è sotto esame, già messa a dura prova dalle proteste popolari a Hong Kong e dal confronto commerciale con gli Stati Uniti, di cui il recente accordo è solo una tregua. Ma la crisi coronavirus rappresenta un test di tutt’altra scala sia per Xi che per il sistema di governo della Repubblica Popolare. Una battaglia su due fronti, sanitario e politico – e quest’ultimo sia sul piano interno che esterno. Non solo gli occhi del mondo intero sono puntati sul sistema di potere del Partito comunista e sul suo leader, ma anche quelli dei cinesi.
Da una parte, il sistema autoritario cinese si rivela particolarmente inadeguato nell’affrontare le emergenze sanitarie. Affrontare un’epidemia richiede molto più che poter costruire un ospedale in pochi giorni. Richiede fiducia e trasparenza, informazioni tempestive e accurate ai cittadini. Tutto il contrario dell’opacità e della paranoia tipiche della mentalità interna ad ogni dittatura, ma in particolare quella cinese, dove ciò che conta è che niente e nessuno osi disturbare la pretesa “armonia” e la decantata stabilità del sistema, né mettere in dubbio l’infallibilità del Partito-Stato. L’intero apparato del partito non si è mosso fino al 20 gennaio, finché non ha parlato il presidente Xi.
Ma Xi Jinping è perfettamente consapevole che non solo le vite umane, la salute pubblica e l’economia nazionale sono minacciate dal coronavirus. Anche il sistema politico. Ciò che teme di più è che la crisi, e il cover-up iniziale, possano minare la fiducia nel sistema di potere autoritario e centralizzato, spingere i cinesi a rivolgere la propria rabbia contro di esso e quindi a rivoltarsi contro il Partito comunista.
È molto difficile valutare oggi se Pechino stia vincendo o meno questa battaglia, ma l’impressione che ricaviamo dalle scarse notizie, i video e le testimonianze che filtrano, è che nonostante una enorme mobilitazione di forze, e un altrettanto enorme sforzo repressivo e propagandistico, il regime non stia ancora riuscendo a far dimenticare i ritardi, le menzogne, le opacità che nelle prime cruciali settimane hanno favorito la diffusione del contagio. Rabbia, oltre che paura, sembra il sentimento prevalente nella popolazione.
L’ondata di commozione mista a indignazione che ha attraversato tutto il Paese per la morte di Li Wenliang, il giovane medico di Wuhan minacciato e arrestato insieme ad altri sette suoi colleghi per aver osato lanciare l’allarme, ne è una prova e ha costretto il partito prima a riabilitarlo poi a tentare addirittura di farne un martire del regime nella lotta contro il virus.
Lunedì per la prima volta dall’inizio dell’emergenza, dopo una lunga assenza in pubblico, il presidente Xi si è fatto vedere in prima linea, visitando il Beijing Ditan Hospital e collegandosi in videoconferenza con il team del governo centrale impegnato in Hubei, ma senza incontrare alcun paziente.
Xi ha sottolineato l’importanza di “orientare l’opinione pubblica”, di “raccontare la storia della lotta della Cina contro l’epidemia” e “mostrare lo spirito di unità e solidarietà del popolo cinese”.
Il sofisticato sistema repressivo, di controllo e sorveglianza, affinatosi negli ultimi decenni grazie all’uso della tecnologia, viene impiegato per far rispettare le quarantene e i blocchi in tutto il Paese. La censura opera a pieno regime per contenere l’eruzione soprattutto online di manifestazioni di dissenso, denuncia e indignazione, mentre la propaganda viene utilizzata per rafforzare l’immagine del regime e nascondere le responsabilità del governo centrale, e del sistema di potere del partito nel suo complesso, nella diffusione del contagio. Dopo la stretta virata del 20 gennaio, dalla negazione dell’emergenza alla narrazione dell’epica lotta contro il virus, in questi giorni il racconto ufficiale si concentra sui cattivi attori che minano gli sforzi delle autorità per garantire la sicurezza della popolazione, favorendo, invece, la diffusione del virus: poche mele marce tra i funzionari locali, untori e persino agenti stranieri.
Basterà tutto questo per far dimenticare i fallimenti del partito nelle prime settimane?
Se l’epidemia di coronavirus non viene contenuta velocemente, ha osservato il Financial Times, potrebbe diventare il “momento Chernobyl” della Cina, “mettere a nudo le bugie e le assurdità dell’autocrazia agli occhi di tutti”, come l’incidente di Chernobyl nel 1986 smascherò quelle del Pcus agli occhi dei cittadini sovietici.
In questo senso, la morte di Li Wenliang potrebbe rappresentare il momento decisivo della crisi, non solo sanitario ma anche politico. Come ricorda il Financial Times, il suo caso è così potente anche perché aderisce perfettamente ad un archetipo della storia cinese: “L’incorruttibile studioso confuciano, che dice la verità all’imperatore ma è perseguitato e alla fine muore per la sua onestà, occupa un posto speciale nella tradizione intellettuale cinese”.
Sia l’epidemia di coronavirus sia il disastro di Chernobyl sono avvenuti in Paesi governati da regimi monopartitici comunisti. In entrambi i casi le autorità hanno inizialmente coperto l’accaduto e milioni di persone ne sono state interessate, anche al di fuori dei loro confini. Ma le similitudini finiscono qui: è anche vero infatti che l’Unione Sovietica era già traballante molto prima dell’incidente di Chernobyl, sebbene in Occidente non tutti concordassero, mentre la Cina è in espansione, dal punto di vista sia economico che geopolitico, al punto da sfidare apertamente la leadership globale statunitense.
Una volta contenuta l’epidemia e rientrata la crisi, è facile prevedere che il regime di Pechino canterà vittoria, celebrerà la superiorità del modello autoritario a partito unico, attribuendosi il merito del successo, mentre punendo i funzionari locali di Hubei cercherà di far dimenticare che proprio il suo sistema di potere ha contribuito all’esplosione del contagio.
Questa volta, tuttavia, sarà molto più difficile ripristinare pienamente la fiducia dei cinesi – ma anche della comunità internazionale e degli attori economici – nel sistema e nella capacità di governo del Partito comunista. Potrebbe aprirsi quindi un periodo di incertezza e instabilità politica senza precedenti nella storia della Repubblica Popolare Cinese.