A Pechino si celebra, a Hong Kong si spara

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Potenza delle immagini. Mentre a Pechino si celebrava l’imponente parata militare per il settantesimo anniversario della Repubblica Popolare Cinese, a Hong Kong si sfilava per le vie della città come in un giorno di lutto. E proprio quando si spegnevano i riflettori sulla più grandiosa auto-celebrazione nella storia del regime comunista, risuonava dalla città ribelle l’eco di uno sparo. Era il colpo partito dalla pistola di un poliziotto e diretto al petto di un diciottenne, uno dei tanti giovani che nel pomeriggio avevano dato vita a una battaglia campale con le forze dell’ordine nel centro di Hong Kong. La pallottola gli ha perforato il polmone ma pare che se la caverà. Poteva andare peggio, viste le premesse.

Nonostante il divieto di manifestazione imposto dalle autorità nel giorno più importante per Pechino, famiglie, ragazzi e anziani erano comunque scesi in piazza per esprimere il loro punto di vista sulla festa nazionale. Il messaggio era chiaro fin dal principio, nonostante bandiere cartelli e slogan ufficiali: qui nulla da celebrare. Una processione disarmata e potente, mentre i battaglioni e i blindati dell’Esercito di Liberazione Popolare percorrevano con cadenza ritmata e costante i viali attorno a Piazza Tiananmen. Poi la seconda fase, secondo un copione già visto: le barricate, i lacrimogeni e gli scontri. Quella di oggi è la prima vittima (anche se non mortale) da arma da fuoco nella storia dell’ex colonia britannica. Un brutto precedente che fa capire due cose. La prima è che, nonostante i proclami, Pechino non ha il controllo della situazione: che si sia sparato proprio nella giornata più importante per il Partito e per il suo leader è un fatto che non passerà inosservato a Zhongnanhai. La seconda è che la lotta democratica di Hong Kong sta diventando una questione esistenziale e allo stesso tempo un problema enorme per la tanto sbandierata e ammirata (anche in occidente) stabilità del sistema. Non a caso nel discorso pronunciato dalla tribuna di Tiananmen Xi Jinping ha insistito reiteratamente sulla inevitabilità del progresso della nazione e sulla “stabilità e prosperità di Hong Kong e Macao”.

Vestito come Mao Tse-tung, il massimo dirigente del Partito e dello Stato ha presieduto un corteo militare in cui la seconda potenza mondiale ha fatto sfoggio delle ultime tecnologie belliche, missili intercontinentali, ordigni sottomarini a lunga gittata, droni e aerei di ultima generazione. Il tutto secondo l’iconografia eterna del totalitarismo, immutabile dalla Mosca sovietica alla Corea del Nord, tra folle plaudenti e sorridenti, dignitari comunisti schierati in atto di saluto, stendardi e grandi ritratti delle guide politiche della nazione, in una conclamata continuità ideale tra il padre della patria e grande timoniere (Mao), il piccolo timoniere (Deng) e l’attuale leader senza limite di mandato (Xi Jinping). Questa immagine di linearità tra le varie fasi della recente storia cinese è necessaria al regime per consolidare una legittimità che qualsiasi riconoscimento, perfino parziale e limitato, delle tragedie e dei crimini del passato (per non parlare del presente) rischierebbe di mettere in discussione.

Se il massacro di Tiananmen – nella versione ufficiale – non è mai avvenuto, anche la famosa formula che riconosceva “un 30 per cento di errori” (sic!) nelle politiche di Mao Tse-tung è ormai superata da una propaganda di regime che mira a dipingere la vicenda cinese come un continuo cammino di riscatto e di modernizzazione, dal 1949 ad oggi. Invece l’innegabile progresso economico e sociale che oggi il governo cinese può vantare è stato possibile proprio grazie all’abbandono – dalla fine degli anni ‘70 – di quell’ortodossia ideologica che ieri formalmente si glorificava, in una colossale menzogna a cui molti, anche dalle nostri parti, hanno deciso di credere. E così, più o meno sorprendentemente, negli speciali dedicati da alcuni mezzi di comunicazione italiani all’anniversario si sacrificano sull’altare della celebrazione proprio quei passaggi cruciali che definiscono la natura del regime cinese fin dai suoi inizi: nel descrivere le magnifiche sorti e progressive della nuova potenza emergente si minimizzano fino quasi a scomparire dall’orizzonte le decine di milioni di vittime del Grande Balzo in Avanti, la follia ideologica senza precedenti della Rivoluzione Culturale, le torture e le esecuzioni sommarie dei “nemici della Rivoluzione”, il sistema di campi di concentramento e di lavoro forzato che ha rappresentato la spina dorsale del terrore e dell’intimidazione dello stato prima totalitario e poi autoritario.

Ma si tacciono – si sa, la Cina è una realtà complessa, ci insegnano gli esperti – non solo i crimini del maoismo ma anche le prove recenti di quello che Giulio Meotti ha brillantemente definito in un tweet “la guerra alla dignità umana” del Partito Comunista Cinese: Tiananmen, gli aborti forzati, la continua e implacabile repressione dei diritti e delle libertà fondamentali, lo scandalo indescrivibile dei campi di “rieducazione” che trasformano la provincia musulmana dello Xinjiang in un’immensa prigione. La Cina è anche questo, perché non ricordarlo chiaramente? Perché preferire il relativismo, il conformismo, il silenzio spacciandoli per obiettività e rigore giornalistico? Domande retoriche, purtroppo. Resta il fatto che, mentre a Hong Kong si comincia a sparare, troppi continuano a fingere che la Cina si spieghi meglio rivolgendo lo sguardo solo ai fuochi artificiali di Pechino.

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