Ci troviamo davvero alla vigilia di una invasione russa dell’Ucraina, come si direbbe alla luce delle dichiarazioni bellicose e delle sirene d’allarme che risuonano in queste ore? Spirano venti di guerra, oppure spira più forte il vento di Monaco ’38, evocato ieri dal ministro della difesa britannico Wallace? Come ha spiegato Enzo Reale su Atlantico Quotidiano, facciamo ancora fatica a credere che Putin possa lanciare un’invasione su larga scala, che comporterebbe comunque rischi enormi per Mosca, tra i quali il danno di immagine sarebbe l’ultimo della lista.
Mettendo in campo una minaccia credibile di invasione dell’Ucraina, capace di protrarsi per mesi, l’obiettivo di Putin è costringere gli Stati Uniti ad un negoziato finalizzato a realizzare il sogno geopolitico di tutta una vita: fermare l’espansione della Nato ad est e ripristinare una sfera di influenza della Russia, sebbene su scala ridotta rispetto all’epoca sovietica, basata però sul medesimo principio della sovranità limitata dei Paesi satelliti, sepolto dal crollo dell’Urss. In pratica, costringere gli Stati Uniti ad una nuova Yalta.
In subordine, dovesse non riuscire a strappare a Washington un accordo soddisfacente, Putin potrebbe mirare al Donbass. In questa eventualità, le truppe russe si preparerebbero non ad una occupazione dell’Ucraina, quanto ad una controffensiva che verrebbe giustificata da una “provocazione” da parte di Kiev, vera o fabbricata poco rileva, il classico casus belli. Putin infatti avrebbe bisogno di una scintilla, di un pretesto, per presentarla come un’operazione a difesa delle popolazioni russofone del Donbass. Potrebbe tentare quindi di ripetere l’operazione Crimea: provocare una reazione ucraina ad una dichiarazione di indipendenza o annessione delle province del Donbass, a cui seguirebbe la “inevitabile” controffensiva russa.
Il momento è particolarmente propizio, agli occhi di Putin, per almeno quattro motivi: primo, l’America è sempre più concentrata sulla Cina e quindi potrebbe essere più incline a fare qualche concessione pur di non ritrovarsi con due nemici da affrontare nello stesso momento. Ma qui forse un errore il presidente russo l’ha commesso: la recente intesa con Xi Jinping a Pechino dovrebbe aver avvertito Washington che regalare l’Ucraina alla Russia significherebbe molto presto dover regalare Taiwan alla Cina.
Secondo, la debolezza della leadership americana, incarnata dalla figura stessa del presidente Biden: il via libera di fatto al Nord Stream 2, con la rinuncia alle sanzioni da parte di Washington, e la disastrosa fuga dall’Afghanistan sono due segnali inequivocabili della volontà Usa di districarsi dai teatri di crisi non più in cima alle priorità strategiche, anche al prezzo di scaricare amici e alleati. L’Ucraina è senz’altro uno di questi, come ha ammesso lo stesso Biden ricordando che non c’è alcun obbligo morale e legale della Nato a difendere l’Ucraina e quindi che l’opzione dell’impiego della forza Usa a difesa di Kiev non è sul tavolo.
Non è un caso che Putin non si sia azzardato a porre in essere la sua minaccia quando alla Casa Bianca c’era Donald Trump, che secondo la vulgata della sinistra doveva essere il suo puppet. Quale miglior momento poteva esserci, se lo fosse stato, per riprendersi l’Ucraina? E invece no, perché pur con i suoi modi irrituali, Trump ha saputo rimettere l’America al centro della scena, tenere a bada la Russia sia sul fronte militare che energetico, aprire per la prima volta un confronto duro con Pechino, richiamare all’ordine gli alleati europei, cambiare schema di gioco in Medio Oriente con gli accordi di Abramo.
Terzo, Putin si rende conto che non può perdere altro tempo: in Ucraina il processo di allineamento – politico e culturale – all’Occidente sta procedendo speditamente. Forse questa è l’ultima occasione per forzare gli eventi e non perdere del tutto la sua presa sul Paese. Dovesse riuscire a ottenere garanzie sullo stop all’espansione della Nato ad est, non avrebbe nemmeno bisogno dell’uso della forza. L’inerzia geopolitica ne risulterebbe invertita e Kiev verrebbe spinta a tornare nella sfera di influenza di Mosca, sufficiente il venir meno della prospettiva di adesione alla Nato e di integrazione nell’Europa occidentale.
Come ha osservato il politologo statunitense Walter Russell Mead, “una Ucraina allineata all’Occidente, e in particolare a Paesi antirussi come Polonia e Repubbliche baltiche, è un’umiliazione insopportabile e una minaccia inaccettabile” per Mosca. Ma il fatto che non le resti che la minaccia militare, suona come una “ammissione del fallimento russo”: la Russia avrebbe già “perso la sua battaglia per il cuore dell’Ucraina”. Più che per ragioni di sicurezza (la paventata adesione dell’Ucraina alla Nato non è all’ordine del giorno né lo sarà nei prossimi anni), sarebbe una perdita in termini geopolitici e culturali.
Tuttavia, osserva WRM, “se la situazione politica all’interno dell’Ucraina allarma Putin, il disordine e l’inettitudine dell’Occidente gli danno speranza”.
E qui arriviamo al quarto motivo per cui il presidente russo crede di poter giocare una mano vincente, con la forza o senza. Già nel 2014 l’Occidente ha di fatto piegato la testa quando Mosca ha annesso la Crimea e lanciato l’offensiva nel Donbass, limitandosi a reagire con sanzioni economiche e l’esclusione della Russia dal G8. Oggi si presenta ancor più diviso e ricattabile di allora.
Da come si stanno muovendo in questi giorni, la sensazione è che per le capitali europee – su tutte ovviamente Berlino e Parigi – pressate dalla crisi energetica, qualsiasi accordo con Mosca sia il benvenuto pur di scongiurare un conflitto. Ma il whatever it takes diplomatico con la Russia di Putin si chiama resa: se accetti la minaccia, se non sei disposto a correre il rischio di un conflitto per difendere le tue “linee rosse” (che non hai nemmeno tracciato), hai già perso. Come ha osservato Enzo Reale su Twitter, “ci sono accordi che preludono a più grandi disastri bellici. Sarebbe cedere al ricatto e preparare la strada a ulteriori invasioni e annessioni”.
Il problema, come scrivevamo già nel novembre scorso, è che il gasdotto Nord Stream 2 non è ancora in funzione ma l’Europa è già sotto il ricatto di Putin. Ora, con Germania e Ue sempre più dipendenti dal gas russo (il 60 per cento delle importazioni), come mostrano le ultime settimane di stretta energetica e prezzi alle stelle, convincere Berlino a rimangiarsi il Nord Stream 2, o a trasformarlo in arma di pressione su Mosca, sembra davvero arduo. Il paradosso che un certo presidente Usa aveva evidenziato già nel 2018:
“La Germania è prigioniera della Russia sull’energia e noi dovremmo proteggerla dalla Russia? Ce lo spieghi”. “Molto triste che la Germania concluda un imponente accordo su gas e petrolio con la Russia, pagandole miliardi su miliardi di dollari l’anno, quando si suppone che noi dovremmo proteggerla dalla Russia. Non ha senso”.
Il senso però l’ha avuto per Putin, dato che oggi non c’è chi non veda come gli interessi dei Paesi europei divergano da quelli americani nella crisi ucraina: i primi disposti a tutto pur di evitare un conflitto con il loro primo fornitore di gas, i secondi preoccupati di tenere in piedi l’architettura di sicurezza europea.
Inserendo il cuneo della dipendenza energetica, Putin ha allontanato l’Europa continentale dagli Stati Uniti: non sorprende dunque che un effetto non secondario della minaccia militare russa sull’Ucraina sia la messa in scena in mondovisione della disarticolazione dell’Alleanza Atlantica.
La stampa europeista dà la caccia ai troll russi sui social e alle felpe indossate da Salvini sulla Piazza Rossa, ma non vede che i principali troll russi in Europa sono al governo a Berlino: si chiamano Merkel, si chiamano Schroeder, si chiamano SPD. Con la Francia che come al solito cerca di giocare in proprio, assecondando le sue smanie di protagonismo anti-Nato, quindi impegnata con Berlino ad assicurare un accordo costi quel che costi all’Alleanza.
Eccolo dunque l’elefante nella stanza: l’Ue franco-tedesca è già equidistante tra Washington e Mosca (e Pechino), grazie principalmente alla Germania che ha reso se stessa, e il Continente, ancor più dipendenti dal gas russo per effetto della transizione green e dei gasdotti Nord Stream.
Come ha osservato Daniele Capezzone, inoltre, anche sul piano dei principi l’Occidente sembra aver perso la sua bussola. “Nemmeno ricorda come ha vinto la Guerra Fredda: deterrenza, difesa dei principi (libertà e democrazia), aiuto a minoranze e dissidenti. E il biennio Covid ha peggiorato le cose: non essendo capaci di difendere la libertà in casa propria, molti governi non sono né creduti né credibili agli occhi dei loro cittadini, che disprezzano gli attuali leader occidentali, insinceri e inconsistenti”.
Una possibile via d’uscita? Un accordo tra Stati Uniti e Russia per la neutralità dell’Ucraina, in pratica la sua finlandizzazione, in base alla quale Kiev non entrerebbe né nella Nato né nell’Unione europea. La nostra impressione è che l’amministrazione Biden non sarebbe in linea di principio contraria a questa ipotesi, ma che preferisca subirla de facto, piuttosto che concederla de jure, attraverso un trattato, una cornice legale, che rischierebbe di minare il ruolo di contenimento della Nato, la sua stessa ragion d’essere, concedendo a Mosca un diritto di veto sulla membership dell’Alleanza. Di sicuro, non è una proposta che Washington potrebbe avanzare con la pistola puntata alla tempia di Kiev, con le truppe russe al confine pronte ad invadere e senza avere la certezza che alla Russia basti.
Ma siamo sicuri che Putin si accontenti di una Ucraina neutrale? Il presidente russo chiede garanzie legali sulla fine dell’espansione Nato ad est, in pratica che l’Ucraina, ma anche Georgia e Bielorussia, non entreranno mai nella Nato. Ma a ben vedere non è esattamente la stessa cosa: la garanzia, scritta o informale, che l’Ucraina non entrerà mai nella Nato non significa di per sé che resti neutrale. Ciò implicherebbe un impegno specifico anche di Mosca a rispettarne la neutralità. Al contrario, Putin sembra rivolere indietro l’Ucraina, l’influenza politica e culturale che la Russia aveva su di essa. Non la vuole “neutrale”, la vuole Paese satellite a sovranità limitata. Non la vuole finlandizzata, la vuole russificata.
Dalle ultime notizie, sembrerebbe che Kiev sia pronta a rinunciare alla sua richiesta di entrare nella Nato. Difficile che Putin si accontenti, vuole la garanzia legale dagli Usa, che però non può avere. Dovrebbe invece cogliere l’apertura, de-escalare e aprire un negoziato sulla neutralità, impegnandosi anch’egli a garantirla.
Dall’altra parte, non si vede una corsa dell’Occidente a difendere l’Ucraina. Le ambasciate che si svuotano, gli inviti ai propri cittadini a lasciare il Paese, le missioni internazionali che si ritirano, i collegamenti aerei sospesi, le divergenze sugli aiuti militari, segnalano piuttosto l’intenzione dell’Occidente di abbandonarla al suo destino – e ricordano infatti l’Afghanistan nelle settimane e nei giorni a ridosso della presa di Kabul da parte dei Talebani. Si direbbe quasi che sia Kiev, in questo momento, sotto sanzioni.
Ha ragione il presidente ucraino Zelenski quando avverte che “questo panico fa il gioco del Cremlino”. Anche perché bisogna ricordare che Mosca può mantenere le sue forze schierate al confine a tempo indeterminato, rendendo l’invasione “imminente” per mesi. Se nel frattempo, nel timore di una possibile invasione, l’Occidente svuota Kiev del suo personale diplomatico, civile e militare, e ne indebolisce i collegamenti con l’esterno, diventa più agevole per gli uomini di Putin intimidire il governo ucraino e ristabilire la presa sul Paese anche senza un’offensiva militare.
L’amministrazione Biden deve decidersi, non può restare a metà strada: o convince Putin che fa sul serio, impegnandosi a difendere l’Ucraina – e la sua prospettiva di integrazione nel sistema occidentale – dall’aggressione russa, oppure cerca una ritirata onorevole, consapevole però che rafforzerà i nemici e indebolirà la sua credibilità agli occhi degli amici.