Il 26 dicembre di trenta anni fa si dissolveva l’Unione Sovietica: quello che era stato il primo terribile esperimento totalitario del mondo contemporaneo, poi trasformatosi in epoca brezneviana in un grigio edificio burocratico, finalmente crollava per spinte esterne (Reagan, Wojtyla, Solidarnosc) e disfacimento interno. Solenne simbolo di una sconfitta epocale fu l’ammainabandiera al Cremlino nella notte di inizio inverno che per l’Occidente cattolico e protestante corrisponde al giorno immediatamente successivo al Natale.
La bandiera rossa con la falce e martello scendeva fino a terra, ma a distanza di trenta anni nel dicembre 2021, la scritta CCCP (la sigla dell’Unione Sovietica) torna sulle maglie della nazionale russa in una sfida valida per la Channel One Cup dell’Euro-Hockey. È difficile trovare paragoni per questa ostentazione: se è corretta l’equiparazione sancita – sia pur con qualche contorsione dialettica – dal Parlamento europeo tra i due totalitarismi, comunista e nazionalsocialista, è come se la nazionale tedesca sulla bianca divisa facesse rispuntare la parola Reich, preceduta dal numerale più nefasto. Peraltro la Russia giocava con la Finlandia, nazione resasi indipendente al momento della rivoluzione bolscevica e che durante la Seconda Guerra Mondiale dovette combattere una lotta impari per evitare che l’Unione Sovietica di Stalin la riannettesse.
Ricordiamo cosa accadde nell’estate del 1939: dopo una serie di sondaggi segreti la Germania di Hitler e la Russia Sovietica trovarono un accordo, una cooperazione militare che durò per circa due anni, basata su reciproche autorizzazioni ad invadere i malcapitati vicini. Per giungere a quell’accordo alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale i tedeschi tradirono il “Patto Anticomintern”, l’alleanza con una serie di Paesi dell’Est Europa, con l’Italia e con il Giappone, che appunto si basava sul principio del contenimento del comunismo. L’Italia in particolare rimase spiazzata dalla mossa dell’alleato che non l’aveva degnata di un cenno o di una informazione riservata nella fase di trattativa che condusse al Patto Molotov-Ribbentrop.
Solitamente di quella intesa russo-tedesca si ricorda la vittima più eccellente: la Polonia, smembrata in due parti. Ma a cadere nel sacco sovietico col via libera dei Tedeschi furono i tre paesi baltici, fu parzialmente la Romania che dovette cedere la Bessarabia. La Finlandia fu lasciata alla mercé di Stalin e dovette difendersi con le unghie nella “guerra d’inverno” che non casualmente divampò pochi mesi dopo la stipula del Molotov-Ribbentrop.
Non solo la parte occidentale della Polonia e una copertura strategica ad oriente che gli permetteva di sferrare la guerra lampo contro i Paesi dell’Europa occidentale, Hitler ci guadagnò anche un appoggio degli intellettuali comunisti su cui oggi la divulgazione storica orientata a sinistra stende un velo pietoso. Nella Francia occupata dai tedeschi la stampa vicina al partito comunista usciva abbastanza liberamente e diffondeva la tesi per cui la guerra era stata l’esito della ingordigia delle demoplutocrazie capitaliste.
Vecchie storie da dimenticare? Difficile però l’oblio, se la nazionale russa di Hockey si presenta ad Helsinki il 18 dicembre con la scritta CCCP sulla maglia, per “ricordare i 75 anni del primo oro olimpico” nella disciplina… La giustificazione non è apparsa congruente ai finlandesi, subito i social si sono riempiti di commenti indignati: la maglia “sovietica” è un “gesto offensivo che non appartiene allo sport né a nessun altro” ha twittato, tra gli altri, l’ex primo ministro Alexander Stubb.
Per capire la disinvoltura con cui la Federazione Russa ha giustificato il riferimento alla sigla sovietica occorre inquadrare la tendenza fondamentale del patriottismo russo nell’era Putin. Mentre Gorbaciov si illudeva di salvare l’edificio del socialismo reale con qualche riforma, ed Eltsin esprimeva il suo meravigliato stupore di fronte allo straordinario benessere diffuso che non il socialismo reale bensì l’Occidente era riuscito a concretizzare, Putin si ricongiunge idealmente a quel momento particolarissimo della storia russa che fu l’autunno del 1941, quando Stalin proclamò la “grande guerra patriottica”.
All’inizio dell’estate 1941 Hitler aveva invaso la Russia ribaltando per la seconda volta le alleanze (poi si dice gli Italiani…) e la terribile macchina da guerra della Wermacht era giunta fin sotto Mosca. A quel punto Stalin cercò di mobilitare tutte le energie russe: non ripetendo gli slogan del comunismo (l’internazionalismo, la classe operaia, la lotta allo sfruttamento capitalista…), ma come un Machiavelli delle steppe fece appello alle energie più profonde del nazionalismo russo e della santa fede ortodossa.
La formula “Grande Guerra Patriottica” che il dittatore georgiano utilizzò fa rivoltare nella tomba Marx, Engels e Trotskij, ma in compenso si dimostrò straordinariamente efficace. Con i tedeschi sotto Mosca, gli slogan dell’ideologia comunista apparvero come un insieme di astrazioni agli occhi dello stesso dittatore che preferì puntare su altro. L’espressione “Grande Guerra Patriottica” fa esplicito riferimento alle fonti della tradizione russa: la lotta contro Napoleone dello zar Alessandro I e dei suoi generali, vittoriosi col metodo della terra bruciata e sotto l’egida del “Generale Inverno”; la tradizione religiosa della Russia profonda che unisce cristianesimo e sciamanesimo. Stalin giunge fino al punto di far volare sulle truppe schierate in battaglia l’icona della Vergine di Kazan, la stessa che in copia Vladimir Putin consegna a Papa Francesco in una delle sue visite in Vaticano.
Il nazional-comunismo di Stalin lascia tracce profonde nella insanguinata storia russa del Novecento, perché a suo modo segna una riconciliazione interna, dopo le ecatombi di anticomunisti, ma anche di comunisti negli anni delle “purghe”. La chiesa ortodossa smette di essere perseguitata e viene riammessa come “instrumentum regni”. Il patriottismo prevale sullo stakanovismo nella pedagogia delle masse e troverà una futuristica declinazione negli anni delle sfide stellari tra “cosmonauti” sovietici e “astronauti” americani.
Alla fine tutto sarà vano. Non vi è orgoglio patriottico che possa tenere in piedi e far marciare il pachiderma sovietico che si schianta definitivamente negli anni 80. Quando l’ex colonnello del KGB sale al potere in una Russia drammaticamente impoverita gioca una carta abbastanza simile a quella adoperata da Stalin. Nel momento in cui l’Unione europea e la Nato si estendono ad Est nell’ex cintura esterna dell’impero sovietico e le risorse energetiche russe sono a rischio espropriazione, Putin fa appello al patriottismo russo, ma anche alla gloria delle vittorie sovietiche. Lo schema è lo stesso, ma invertito. Stalin agganciava il patriottismo russo al comunismo, ideologia ufficiale dello Stato. Putin, che pure ha dichiarato la sua ammirazione per autori anti-comunisti come Berdajev e Solgenitsin, fa l’opposto: aggancia al patriottismo di rivalsa russo il ricordo impenitente di quando la Russia era all’apogeo della sua potenza e dominava da Dresda a Vladivostok, passando per (e anche calpestando…) Berlino, Varsavia, Budapest, ovvero quando era sovietica. Del resto sul significato della fine dell’URSS il presidente russo è stato categorico: “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”.
Il punto è che questo schema funziona in patria, ma è catastrofico al di fuori dei confini. All’interno riconcilia i russi con i nonni e i bisnonni che combatterono e conseguirono una vittoria ad un prezzo terribile (vedi la rappresentazione del “Reggimento degli Immortali” per la sfilata del 9 maggio), ma a Vilnius, a Varsavia, a Kiev, e in questi giorni a Helsinki, esso suscita lo stesso sconcerto inquadrato in maniera umoristica in una sequenza cult dei Simpson che mostra un ambasciatore russo con sottopancia girevole che da Russia diventa URSS.
In termini di soft power il recupero putiniano delle glorie sovietiche ha lo stesso effetto-simpatia di un bacillo che si aggiri incontrollato dalle parti di Wuhan per poi salire su un aereo…
Mosca continuamente si appella a una “intesa non scritta” per cui la Nato avrebbe dovuto evitare l’allargamento ieri fino ai Baltici, domani fino all’Ucraina. Tuttavia, nella fascia esterna dell’ex impero sovietico il sentimento prevalente è proprio quello di un appello all’ombrello atlantico per evitare che torni il vecchio, non amato padrone. I media russi descrivono le bandierine Nato piantate sulle capitali dell’Est come una invasione, ma in quelle capitali il ricordo delle tragedie del Novecento e dei quaranta anni di occupazione russo-comunista si fa sentire e diventa più forte nel momento in cui a Mosca si celebrano i successi (solo sportivi e astronautici?) dell’Unione Sovietica. In questo scenario la sigla CCCP che rispunta non appare una trovata geniale.