“Molti giovani universitari sono come un fiume in perenne piena. Son sempre fuori corso”, diceva Giulio Andreotti. Una frase che, nonostante sia una simpatica battuta, lascia inevitabilmente l’amaro in bocca nascondendo verità e situazioni ben più grandi: la tragedia dell’università italiana.
Un sistema dell’istruzione efficiente e funzionante, in particolar modo quello universitario, è una delle garanzie per un’economia sana: è innegabile come individui più istruiti e qualificati contribuiscano ad una maggiore ricchezza per il Paese. Lavoratori ed esperti preparati elevano la produttività del comparto industriale ed economico, creando maggiore benessere sociale per tutta la comunità e per gli individui stessi in termini di retribuzione (IBL, 2008). Per realizzare ciò bisogna però che il paziente Italia goda di un’ottima salute, cosa che adesso purtroppo non si può permettere.
In termini di investimenti in ricerca ed istruzione, la nostra penisola si colloca in fondo alla classifica europea: secondo Il Sole24Ore, il Belpaese spende solo il 4 per cento del Pil contro una media Ue del 4,9 per cento. Peggio di noi solo la Romania e l’Irlanda con, rispettivamente, il 3,1 e il 3,7 per cento (dati di agosto 2017). Attenzione però a non farsi ingannare dalle percentuali: la Germania investe il 4,3 per cento del Pil, che in valore nominale si traduce in quasi 127 miliardi di euro contro i 65 dell’Italia. La situazione peggiora se consideriamo la percentuale rispetto alla spesa pubblica, dove ci collochiamo terz’ultimi: 1,6 per cento rispetto al 4,2 della Danimarca (dati OECD).
Che questo sia forse il preludio ad un ammiccamento rivolto ai “pro-spesa come panacea di tutti i mali”? Assolutamente no. Anzi, nonostante le condizioni svantaggiate rispetto al resto d’Europa, l’Italia può comunque vantare atenei di eccellenza: come riportato recentemente da la Repubblica, l’università italiana migliora di buon passo nei ranking internazionali, posizionandosi settima nel continente europeo considerando i top 200 istituti. E non da meno sono i nostri ricercatori ed esperti: nonostante la loro perpetua condizione di sottopagati, possiamo vantare eccellenze accademiche come Alessio Figalli, al quale è stata assegnata la medaglia Fields, considerata il più alto riconoscimento nel campo della matematica, il quale ha intrapreso la sua carriera universitaria proprio alla Normale di Pisa. Tasto dolente quest’ultimo, poiché la giovane promessa è poi andata a sviluppare le sue ricerche e ad insegnare altrove, nello specifico a Zurigo. La fuga dei cervelli è un fenomeno molto conosciuto nella penisola: sempre secondo la Repubblica, nel 2016 hanno fatto la valigia 48.600 giovani tra i 18 e i 34 anni, con un aumento del 23,3 per cento rispetto al 2015. Tra il 2010 e il 2017 il Paese ha perso quasi mille ricercatori all’anno.
Quindi qual è il problema di fondo del nostro sistema educativo?
In poche parole, l’Italia ha la peculiarità di avere un alto numero di atenei, tutti di buon livello ma che così separati individualmente non riescono ad essere veramente ottimi e ad usufruire dei fondi statali nel modo più efficiente, essendo già essi molto risicati. La frammentazione a livello provinciale, regionale e nazionale non permette livelli adeguati di ricerca e sviluppo poiché bisogna prima alimentare tutto quello che è il comparto organico e, soprattutto, le spese gestionali del microcosmo attuale degli atenei.
Invece di tagliare gli investimenti, fondamentali per affrontare il futuro mercato del lavoro, la soluzione può arrivare dagli Stati Uniti d’America: il modello d’oltreoceano infatti si basa principalmente su realtà a livello statale e non federale. Da noi ciò potrebbe essere tradotto raggruppando gli atenei a livello regionale, riducendo gli edifici e riconvertendo le sedi attuali in succursali. Brevemente: accorpare e creare dei conglomerati di studio e ricerca sì più grandi, ma al contempo anche più indipendenti dallo Stato e con una maggiore flessibilità nel gestire i propri fondi diminuendo le spese inutili, premiando le gestioni più virtuose e tutelando la storia e la tradizione dei centri accademici. Seguendo sempre gli Stati Uniti, ciò avviene per esempio con la University of California (UC), la quale ha diversi campus dislocati (UC Los Angeles, UC Berkeley, UC San Diego) per lo stato ma che possono vantare amministrazioni più snelle e diligenti: meno spese amministrative da poter investire nella ricerca. Per realizzare ciò bisogna superare due problemi principali. Uno è insito nell’università stessa: il cosiddetto fenomeno dei “baroncini”, ovvero ordinari e rettori arroccati nelle loro minuscole sedi, aggrappati con tutte le forze alla loro scrivania per non perdere il mezzo privilegio acquisito, arrecando involontariamente (o in malafede) danno ai propri studenti.
In secondo luogo, il cambiamento deve partire proprio dai giovani. Sia il neo-studente che la famiglia devono superare l’innato astio per i campus: per molti giovani e parenti andare fuorisede (ma pur sempre dentro i confini nazionali) sembra essere quasi paragonabile al viaggio di Ulisse, quando invece potrebbe essere una grandissima opportunità. Oltre a una maggiore coesione sociale, con i ragazzi vicini anziché sparsi per la città come succede tutt’ora anche in grandi metropoli come Milano, le nuove leve svilupperebbero maggiore indipendenza, senso di responsabilità e una mentalità volta ad accettare sfide più internazionali. Utopia?