Quale mostro è diventato la politica italiana? Quale insidiosa malattia ha contagiato i nostri parlamentari, diventati camaleontici esponenti di se stessi, portavoce delle più contraddittorie opinioni, incapaci di fare fronte comune per il bene comune? I partiti, nobile espressione della libera associazione solidale tra rappresentanti del popolo, sono ormai come le corriere; portano gente che ha poco o nulla da spartire dove ciascuno di loro vuole andare. Fermata unica: Roma. Una volta giunti alla fermata, ciascuno vada un po’ dove cavolo vuole. Badate bene: non ci sono fermate intermedie, si va tutti a Roma e la corriera è sempre piena, la corsa è gratis, anzi ben retribuita. Piuttosto interessante, ammettiamolo. Di quali maggioranze andiamo cianciando da anni, di quali destre e quali sinistre, per non parlare del centro? Roba morta e sepolta. Se non si restituiranno ai partiti le loro prerogative ed al governo (sempre rigorosamente a termine e sub judice come richiede la democrazia) la sua funzione di guida del Paese, secondo i risultati elettorali, non potremo che andare sempre peggio.
Quanto stiamo vivendo è del tutto nuovo e, per quanto caotico e confuso, non assomiglia nemmeno all’anarchia o ai putsch del secolo scorso, quando pochi temerari prendevano il comando delle nazioni storicamente più inclini ai colpi di mano, e poi ne pagavano irrimediabilmente le conseguenze di persona, per cui si restituiva il bastone del comando all’establishment, o meglio, era questo a trionfare in tempi abbastanza brevi, con pressoché unanime soddisfazione generale. Oggi, in Italia, non possiamo nemmeno definire quale sia la volontà popolare aggregata e prevalente, in un minestrone d’idee che non sembrano seguire una ben delineata traccia ideologica, assistendo invero allo scomposto correre ora qua, ora là e dove incomprensibilmente sia la testa, il cuore o chissà quale altro organo a condurli. In tutto questo marasma sventola però, per quanto non molto garrula ed alquanto lisa, la bandiera di una Costituzione che non dobbiamo dimenticare esser stata di compromesso e del tutto improntata all’emozionalità del primissimo Dopoguerra, quando l’importante era prendere le distanze dal ventennio e, soprattutto, dalla guerra, di cui ancora fumavano le macerie, quando venne promulgata dall’Assemblea Costituente.
Mai stati tanto incerti, politicamente parlando, come adesso, al punto di conferire quasi valore di legge a sondaggi, perlopiù farlocchi e di parte, che paiono attualmente essere l’unico indicatore del consenso popolare rispetto alle varie fazioni in campo. Fino a non molto tempo fa, era ancora possibile chiedere ad un amico: “Di quale partito sei?” intendendo chiedergli quale partito votasse, e capitava perché in un partito era ancora possibile in qualche modo identificarsi. Adesso non esiste più traccia alcuna della sacrosanta diversità di opinioni votando questo o quell’altro partito. Il voto è pura lotteria. Ormai si vota un po’ a casaccio, con criteri del tutto emotivi e contingenti e, comunque, sempre “per cambiare”. Ma cambiare cosa, santiddio? Riusciamo persino a dare il nome “Cambiare” ad una formazione politica, attualmente al governo di una Regione, che si ricandida per il secondo mandato alle prossime amministrative. Siamo giunti al cambiare noi stessi. Perché l’unica manifestazione concreta d’intelligenza e sensibilità politica sembra ormai essere ridotta alla generica capacità di cambiare e di innovare qualcosa. Cosa, di preciso, s’intenda cambiare, e cosa sostituirà il cambiato passa in secondo piano. Poveri noi, non del tutto incolpevoli cittadini, che di questi eterni laboratori di idee siamo le innocue e (forse) rassegnate cavie.
Facciamo però un passetto indietro, per cercare di capire cosa possa averci portato a tanta confusione di idee. Quando, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo XX, in piena epoca di caduta del Muro, coincidente con il disgelo tra le due superpotenze di allora, si vaneggiava del superamento del concetto di partito, della necessità prevalente di “moralizzare la politica” e si commise un errore storico e concettuale del quale paghiamo ancora oggi, e chissà per quanto ancora pagheremo, le conseguenze. Abbiamo distrutto a picconate almeno tre partiti storicamente rilevanti nella nostra tradizione elettorale (perché, non dimentichiamolo, anche la DC, il PCI ed il PSI erano votati, eccome…) con l’auspicio di spazzare via i politici arraffoni dell’epoca, che certamente esistevano, sostituendoli coi tecnici e coi magistrati, ossia con quelli dalle mani e dalle facce pulite. Quanto quelle mani e quelle facce fossero davvero pulite lo lascio al vostro giudizio, ma certamente non possiamo non constatare amaramente che di partito se ne costruì, di fatto, almeno uno nuovo, quello dei magistrati d’assalto, dei pretori che travalicavamo allegramente i limiti di competenza territoriale e delle Procure della Repubblica che assumevano, altrettanto di fatto, il controllo validante sull’operato della politica rappresentativa. A quale meraviglia di sistema ci abbiano portato i moti di “mani pulite” ed altre “rivoluzioni sociali” consimili, possiamo constatarlo tutti, quale che sia il nostro orientamento di fondo. Qualcuno potrebbe addirittura ipotizzare un’operazione di eugenetica, una sorta di progressiva sostituzione dell’elettorato che, privato del riferimento preciso dei partiti politici possa solo genericamente prestare un consenso fideistico nei confronti di qualsiasi outsider, dandogli preventivamente carta bianca, accettando di conseguenza, che questi si sottragga ad ogni forma di verifica e di coerenza e d’opportunità sociale che dal partito che dovrebbe rappresentare dovrebbe derivarne. Vogliamo il console romano o perlomeno il tribuno della plebe, ma senza le stringenti regole del Senato romano.
Preoccupa altresì la trasfigurazione dello stesso concetto di governo, alla quale stiamo assistendo progressivamente, verso quali obiettivi e con quali scopi non ci è dato saperlo, sebbene sia ampiamente giustificato temerne le conseguenze. Eravamo, magari banalmente, rimasti al governo come forza politica o coalizione di più partiti ai quali è affidata dalla maggioranza degli elettori la guida del Paese, come realizzazione pratica di un chiaro programma elettorale sottoposto all’elettorato stesso. In uno Stato che davvero sia Stato, il governo non è niente più che “la stanza dei bottoni” alla quale soltanto gli elettori possano dare o togliere l’accesso, con le dovute e regolamentate eccezioni che non devono diventare la regola. Parrebbe invece che il governo sia ormai diventato una sorta di super-partito, senza simbolo e senza un legittimante voto specifico, in cui vi sia comunque un leader, figura che “primus inter pares” non sembra esserlo più da un pezzo, ma diventato, al contrario, capo assoluto dei suoi ministri ed unica guida del Paese, anche al costo di qualsiasi giravolta, salto carpiato con vari avvitamenti, con diritto di libera migrazione tra gli opposti emicicli del Parlamento e, nella sostanza, il totale scollamento dal controllo elettorale. Qualcuno potrebbe, a tal punto, obiettare che la forma di Stato che più si avvicini a questo sarebbe la Repubblica presidenziale. Bene, ma chi sono i più accesi nemici di tale soluzione? Esattamente quelli che al governo vi sono adesso. Altri penseranno che per noi ci vorrebbe il Lider Maximo, meglio se insediatosi senza colpo ferire. Non credo si arriverà a tanto, anche perché non siamo nella Cuba del primo dopoguerra, per nostra fortuna. Ma che il potere dia facilmente alla testa, soprattutto se tantissimo e capitato all’improvviso e senza una cospicua esperienza politica precedente, un po’ di sopravvalutazione delle proprie capacità ci sta(rebbe). Dicevo che, ancora una volta, la colpa è in gran parte nostra. A forza di chiedere a gran voce “quello con le palle” e “quello che decida in fretta”, certi risultati ce li siamo andati a cercare col lanternino. Quanto fossero belle e di alto valore politico le accalorate e talvolta strabordanti sedute di ambo le Camere (guai a volerne sopprimere la più alta, il Senato della Repubblica!) nelle quali i parlamentari esercitavano il loro mandato, è sempre più un ricordo, essendo Montecitorio e Palazzo Madama ormai ridotti all’ininfluente ruolo del caffè alla buvette, mentre la politica vera, quella quotidiana e che tutti ci riguarda, dal Parlamento ci passa poco. E non solo ci passa poco e nemmeno sempre, ma vediamo che la nostra politica germina rigogliosamente, anche e soprattutto di notte, nelle segrete stanze di Palazzo Chigi, magari preceduta da qualche serata elegante nelle ville dei soliti vipponi, quelli che contano davvero e che di tessere di partito ne hanno quattro. Nota bene: gli stessi vipponi di ora erano già generosi anfitrioni dei potenti di allora durante il detestabile ancièn regime, quello dei partiti, ed anche a quegli esponenti protendevano le frementi boccucce agognando la corroborante poppata, ma fa niente. Temo piuttosto chi si stia fondando il partito del Marchese del Grillo, a giudicare dalle risposte di certi importanti esponenti attuali a giornalisti e/o poveri sfigati che abbiano l’ardire di avanzare loro una anche lieve e pacata critica. La risposta è la medesima: “Io sò io e voi…” Ma dicevamo “Basta politici di professione!”, no? Esattamente questo volevamo, mettiamocelo bene in testa. Questo il risultato che rischiavamo di ottenere sparando a zero per anni ed anni sui deprecabili partiti e sulla noiosa e lenta politica parlamentare. Non occorreva essere navigati politologi per preconizzarlo. Volevamo la bicicletta? Pedalare! E se saremo stufi di pedalare, ci rimarrà sempre il monopattino.