Come abbiamo più volte sottolineato dalle pagine di Atlantico, la scelta geopolitica che l’Europa ha di fronte in questi anni è se rinnovare l’alleanza di interessi e valori con gli Stati Uniti, o se lasciarsi trascinare in un blocco euroasiatico dominato dalla Cina. Il problema è che non ci sono un giorno e un’ora fissati per prendere questa decisione, una firma da apporre su qualche documento o “contratto”. Si tratta di un processo lungo anni, forse decenni, fatto della somma di tante decisioni e firme. Quindi, il rischio è che l’Europa semplicemente si trovi a scivolare nell’orbita di Pechino (e Mosca) senza nemmeno esserne consapevole, e a nostro avviso è questa la tendenza in atto.
La decisione del governo italiano, confermata dal presidente Conte venerdì scorso al Festival di Limes, di sottoscrivere (primo Paese del G7) un memorandum di intesa sulla Belt and Road Initiative, già a fine marzo durante la visita del presidente Xi Jinping in Italia, seppure non ancora legalmente vincolante, è particolarmente preoccupante perché potrebbe indicare a Pechino di aver trovato nel nostro Paese il ventre molle dell’Europa.
Il problema di fondo degli europei è aver fino ad oggi concepito le relazioni con la Cina solo in termini di opportunità commerciali e non geostrategici. Politiche eccessivamente orientate al consolidamento fiscale, persino nella disciplinata Germania, hanno sacrificato gli investimenti europei in infrastrutture, telecomunicazioni, difesa e in generale nuove tecnologie, mentre nel frattempo la Cina scommetteva forte su questi settori, con un approccio integrato di politica economica, estera e di difesa. Come dimostra il dossier Huawei-5G, l’Ue si è fatta trovare impreparata ad affrontare le implicazioni tra sicurezza e politica industriale, a rispondere quindi alla sfida cinese. Ma il vento sta cambiando. Sulla BRI, Bruxelles e le altre grandi capitali europee, che hanno con Pechino rapporti commerciali ben più consistenti dei nostri, sono state più prudenti. E una settimana fa, con le sole astensioni di Italia e Regno Unito (in uscita dall’Ue), il Consiglio europeo ha votato un nuovo quadro di norme per il controllo degli investimenti esteri diretti in Europa. Anche a Berlino stanno aprendo gli occhi. Se una volta la Germania vedeva la Cina come un mercato di sbocco per i suoi prodotti, soprattutto macchinari, oggi comincia a sentirsi minacciata, come mostra il piano del ministro dell’economia Altmaier per proteggere i settori strategici dalle acquisizioni cinesi – telecomunicazioni, trasporti, energia, finanza, aeronautica.
A dire il vero, nonostante la diffidenza sulla BRI e il nuovo approccio protezionista, l’atteggiamento di grandi Paesi europei come la Germania è ancora ambiguo, ondivago. Berlino non sembra avere alcuna intenzione di rinunciare a progetti dall’elevata valenza geopolitica che condivide con potenze rivali dell’Occidente. La cancelliera Merkel sembra essere così ingenua da credere che un accordo anti-spionaggio con Pechino la metta al riparo dalle criticità insite nell’affidare lo sviluppo della rete 5G a Huawei, o piuttosto che basti a tranquillizzare Washington. Basti pensare poi alla determinazione con la quale difende il progetto Nord Stream 2, che aumenta l’interdipendenza energetica ed economica tra Germania ed Europa da una parte e Russia di Putin dall’altra, contro le preoccupazioni dei partner Ue e Usa. L’adesione di Roma alla BRI rappresenterebbe una sfida all’alleato americano molto simile a quella tedesca, solo che Berlino ha le spalle molto più larghe di noi. E perderemmo quell’occasione che Brexit ci offre – e che scaricati da francesi e tedeschi dovremmo vedere come prima necessità – di diventare tra i grandi Paesi europei interlocutori privilegiati degli Stati Uniti, alla ricerca di alleati per arginare la deriva germanocentrica dell’Ue.
Quando il sottosegretario Geraci assicura che in questa firma “non c’è alcun intento geopolitico”, quando il premier Conte spiega che far parte dell’Alleanza atlantica “non ci impedisce di fare scelte economiche e commerciali con la Cina per avere maggiori opportunità”, quando il vicepremier Di Maio insiste che stiamo guardando alla nuova Via della Seta “non per fare accordi politici con la Cina, ma solo per aiutare il made in Italy”, stanno dimostando la loro incapacità di percepire la reale portata strategica della BRI. È vero piuttosto il contrario: è un disegno essenzialmente geopolitico, prim’ancora che economico e commerciale, tanto da diventare il cardine della politica estera cinese.
Certo, fanno gola gli investimenti infrastrutturali di Pechino, le opportunità commerciali, soprattutto alle economie in crisi come la nostra. Ma ecco perché gli Stati Uniti sono contrari: non perché abbiano problemi ad accettare che un alleato riceva investimenti anche da potenze rivali e faccia affari con esse, ma perché la BRI va decisamente oltre, è una sfida geopolitica, mira ad aumentare esponenzialmente la sfera d’influenza cinese, a portarla fino nel cuore dell’Occidente. Attraverso le nuove vie della seta sia fisiche (strade, ferrovie, porti) che digitali (reti di telecomunicazioni), il disegno è quello di creare dipendenza per connettere e integrare, o meglio assorbire in uno spazio economico e politico comune, dominato da Pechino, il maggior numero di regioni e stati possibili dall’Estremo Oriente a Lisbona: è l’Eurasia non solo come espressione geografica e geologica, ma anche “Comunità di futuro condiviso per l’umanità”, come recita l’inquietante corollario della BRI. I Paesi soprattutto asiatici e africani che hanno aderito stanno già sperimentando l’approccio predatorio, attraverso la “trappola del debito”, colonialista e imperialista di Pechino.
Alti funzionari della Casa Bianca, parlando con il quotidiano La Stampa, hanno avvertito che l’adesione del nostro governo alla BRI rischia di compromettere la collaborazione tra aziende americane e italiane e, addirittura, “l’interoperatività della Nato”, cioè il nostro ruolo nell’Alleanza. L’Italia, si legge in un tweet del National Security Council, è “un’importante economia globale e una grande destinazione per gli investimenti. Sostenere la BRI legittima l’approccio predatorio della Cina e non porterà alcun beneficio agli italiani”. “Preoccupazioni condivise”, fa sapere via Twitter il sottosegretario per gli affari esteri (quota Lega) Guglielmo Picchi, che ritiene “necessaria un’ulteriore riflessione interna al governo” e che “ad oggi non si debba procedere alla firma”.
Qualcuno osserva che in fondo facevamo affari persino con l’Unione sovietica in piena Guerra Fredda. Affari, appunto, ma all’epoca l’Italia non ha mai nemmeno lontanamente pensato di aderire al Comecon. Si ricorda anche Venezia, Marco Polo, la vecchia via della seta. Ma nel frattempo è stata scoperta l’America (da un genovese) e sappiamo bene come ciò abbia cambiato gli equilibri geopolitici mondiali, il ruolo storico del Mediterraneo e dell’Italia. Pechino vorrebbe rilanciare i fasti di 1.600 anni di relazioni commerciali e politiche euroasiatiche, dalla dinastia Han fino alla scoperta dell’America, culminate con l’Impero Mongolo proprio all’epoca del celebre mercante veneziano. Come lo era della vecchia, l’Italia sarebbe il terminale naturale della nuova via della seta, delle rotte marittime provenienti dall’Oceano Indiano via Canale di Suez, e portale di ingresso per l’Europa centrale.
Ma i rischi legati alla BRI, oltre alla perdita di sovranità su infrastrutture strategiche – non va dimenticato che tutte le grandi compagnie cinesi sono legate allo Stato e promuovono gli obiettivi della dittatura comunista – non sono diversi da quelli sperimentati in questi due decenni di pratiche commerciali scorrette e politiche mercantiliste da parte di Pechino: un’ulteriore invasione di prodotti scadenti cinesi, furto di tecnologie e proprietà intellettuale, barriere nell’accesso ai loro mercati e agli investimenti delle nostre aziende in Cina, mentre prosegue il loro shopping compulsivo delle nostre.
Qualcuno davvero crede che l’Italia da sola possa ottenere da Pechino quella parità di condizioni, quel fair trade che a colpi di dazi e duri negoziati l’amministrazione Trump sta cercando di ottenere – e probabilmente non otterrà del tutto? L’adesione italiana alla BRI arriverebbe nel momento peggiore, perché rischia di indebolire il pressing su Pechino e rompere un fronte comune, proprio mentre sono in corso i negoziati commerciali Usa-Cina e gli sforzi per arrivare a un approccio unitario dei Paesi Ue nei confronti degli investimenti cinesi.
L’ironia della sorte è che, come dimostrano la svolta protezionista in corso nell’Ue verso Pechino e le critiche alla scelta avventata del governo gialloverde, quello stesso mondo politico e mediatico che solo pochi mesi fa – quando il presidente Trump per primo mostrava di voler affrontare energicamente il problema e inaugurava la sua politica dei dazi, per costringere i cinesi a negoziare sul serio – accoglieva Xi Jinping a Davos come il nuovo difensore dell’ordine liberale, guarda caso oggi sembra aver aperto gli occhi sui pericoli dell’abbraccio cinese. Benvenuti, anche se il sospetto è che sia tutto strumentale (personalità come Prodi e Letta, giornaloni e centri studi, sono tutti favorevoli alla BRI, solo di concerto con l’Ue).
Sentiamo spesso ripetere che l’Ue deve “fare da sola”, che deve integrarsi e rafforzarsi, essere autonoma dal punto di vista della difesa, quindi politico e strategico. Sovrana, qualcuno direbbe. Si tratta di pericolose illusioni, quando non di specchietti per le allodole, perché se siamo (ancora) forti dal punto di vista commerciale, senza Stati Uniti siamo un nano dal punto di vista militare e quindi geopolitico, e la nostra economia sta declinando, perdendo posizioni sia rispetto alla Cina che all’India e all’America. Dunque, restare ancorati all’alleanza, alla comunità di interessi e valori con Washington, che ci ha garantito 70 anni di libertà, prosperità e sicurezza, o finire sotto l’orbita di Pechino, una potenza autoritaria che sta cercando di ridisegnare l’ordine globale a propria immagine, sono le due uniche opzioni realistiche. No third way.