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L’aggressione a Finkielkraut e la cattiva coscienza di media e politica

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Gli attacchi antisemiti si moltiplicano, ma diventano notizia e suscitano indignazione solo se strumentalizzabili

Non c’è dubbio che l’aggressione di stampo antisemita al filosofo francese Alain Finkielkraut qualifichi il movimento d’oltralpe dei gilet gialli, una folla politicamente eterogenea che, soprattutto dopo il dietrofront del presidente Macron sull’aumento delle tasse sul carburante, e quindi il venir meno dell’elemento scatenante la protesta originaria, sembra divenuta il ricettacolo di teppaglia di ogni genere ed estrazione ideologica violenta e antidemocratica. Tuttavia, non riusciamo a liberarci del sospetto che il clamore mediatico suscitato, l’ampia eco e il moto di indignazione anche in Italia, siano stati in gran parte strumentali. L’aggressione a Finkielkraut offriva l’occasione perfetta per mettere in cattiva luce i gilet gialli e ha così ricevuto la giusta attenzione da un mondo dell’informazione mainstream al contrario solitamente molto distratto quando si tratta di attacchi antisemiti per mano di musulmani, in crescita in Europa e in particolare in Francia. Lo stesso Finkielkraut subisce da anni aggressioni, insulti e minacce di questo genere, senza che ciò abbia sollevato le reazioni di questi giorni. Ma stavolta, appunto, c’erano di mezzo i gilet gialli.

Peccato che, guarda caso, non abbia avuto altrettanta visibilità la notizia che il principale aggressore di Finkielkraut a margine della manifestazione di Parigi, quello apparso nei video più violento e insistente, fosse noto alle forze dell’ordine come un islamista radicale. Lo stesso filosofo non ha avuto difficoltà a riconoscere negli insulti e nelle minacce ricevute (al grido “Palestina!” e “Dio ti punirà!”) una “retorica islamista”. Si è trattato a suo avviso di “un miscuglio di giovani delle banlieue, dell’estrema sinistra e forse di soraliani. Hanno preso di mira soprattutto le mie posizioni su Israele”. Il fenomeno è quello del cosiddetto “islamo-gauchisme”, una sorta di fusione calda di islamismo e sinistra antisemita che tocchiamo con mano di frequente anche in Italia. L’antisemitismo francese, come del resto negli altri Paesi europei, è piuttosto trasversale: va dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando però per una formula più subdola, che si traveste di anti-sionismo e legittima critica a Israele, molto praticata nelle cancellerie europee e all’Onu e pienamente sdoganata sui mezzi di informazione. Da quel ceto politico e di governo “rispettabile”, “competente”, e da quel mondo intellettuale, che non perdono occasione per bacchettare Israele, spesso sulla base di fake news e propaganda palestinese, mentre stentano a vedere, o fingono di non riconoscere, le molteplici minacce che incombono su di esso. E che, anzi, tendono la mano e fanno di tutto per salvare i loro affari con un regime come quello iraniano fondato sull’antisemitismo, che fa della distruzione di Israele e dello sterminio degli ebrei la propria missione storica.

E se fa strabuzzare gli occhi che al Festival di Berlino vinca un film in cui si narra di un ebreo in fuga da Israele verso la Francia (ne ha parlato ieri il nostro Adriano Angelini Sut), quando non smette di ingrossarsi il flusso in direzione opposta di ebrei che per paura decidono di lasciare la Francia per trasferirsi in Israele, chiedendo “l’aliyah“, il ritorno alla Terra Promessa dalla diaspora (duemila partenze nel 2012, tremila nel 2013, 7.231 nel 2014, 7.900 nel 2015 e 5.000 nel 2016), forse avrebbero meritato maggiore attenzione e sana indignazione anche gli undici ebrei morti ammazzati per mano dei fascisti islamici e le 541 aggressioni antisemite, fisiche e verbali, denunciate alla giustizia francese nel solo 2018, il 74 per cento in più rispetto all’anno precedente. L’impennata degli attacchi antisemiti in Francia risale ai primi anni 2000, registrata nelle periferie e nelle aree con una maggiore concentrazione di musulmani. In Francia ormai il 22 per cento degli ebrei dice di evitare gli eventi collettivi perché ha paura di attentati, e il 40 per cento ammette di non indossare la kippà o una stella di David a causa delle continue aggressioni. “Gli atti contro le sinagoghe o le scuole per la prima volta sono ora diretti alle persone, in strada o a casa”, scrive Le Monde.

È ormai una lunga scia di sangue, violenze e intimidazioni. Di “una nuova Shoah, silenziosa, mediaticamente poco dolorosa, che macchia la patria delle lumières” aveva parlato sempre Adriano Angelini Sut, e sempre qui su Atlantico, quasi un anno fa, a partire dalla cinica e beffarda sorte di Mireille Knoll, una 85enne ebrea, sopravvissuta al rastrellamento nazista del Velodrome d’Hiver, il cui cadavere martoriato dal suo vicino musulmano con undici coltellate fu trovato carbonizzato nella sua abitazione di Parigi. Una storia che avrebbe meritato tutt’altra risonanza mediatica e attenzione politica. Soprattutto perché non il primo caso di omicidio a sfondo antisemita. Basti ricordare la straziante fine di Ilan Halimi, un giovane ebreo che nel 2006 venne rapito, torturato per 24 giorni e infine ucciso da una gang di fondamentalisti islamici, poi soprannominata la “banda dei barbari”, che andava a caccia di ragazzi ebrei per trucidarli. No, non ha vinto l’Orso d’Oro “Je suis Ilan – 24 Jours”, il film sul caso di Ilan. Dopo arrivarono la strage alla scuola di Tolosa e l’assalto all’Hyper Cacher di Parigi. Tutto nella nostra Europa “multiculturale”…

Lo stato francese non riesce a difendere i suoi cittadini di religione ebraica dagli attacchi dei fascisti islamici. Un fenomeno che terribili storie quasi clandestine e numeri crescenti descrivono in tutta la sua brutalità e portata, ma che non fa notizia, evidentemente, come l’aggressione a Finkielkraut ad opera ancora una volta di un islamista radicale, ma col gilet giallo.

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