Ma i britannici saranno ancora europei? Conviene cominciare a porsela la domanda, visto che prima o poi Brexit si concretizzerà in un modo o nell’altro e la bandiera dell’Unione europea perderà una stella per strada. Geograficamente sì, ma la geografia oggigiorno è un’opinione, specialmente se il pensiero consolidato nel Vecchio continente da iniziative, campagne politiche, fondi sociali e programmi culturali è quello che si è europei solo se membri dell’Ue, altrimenti si è altro, roba strana o per le meno spuria: è difficile immaginare che l’Islanda sia una nazione geograficamente europea, distante com’è nell’Oceano atlantico ed euroscettica come ha dimostrato standosene ancora più lontana dall’Unione politica, economica e burocratica che ha il suo epicentro a Bruxelles. Eppure due anni fa ha fatto faville agli Europei di calcio. D’altra parte alla Champions e all’Europa League partecipano anche squadre di calcio turche e israeliane, mentre il circus della Formula 1 ha tentato inutilmente di convincerci che l’Azerbaijan sia europeo, organizzandoci il Gp d’Europa nel 2016. Nella pallacanestro e nella pallavolo non va diversamente, con frontiere piuttosto labili nel delineare i contorni di ciò che è europeo e ciò che non lo è.
Quindi, i britannici saranno ancora europei o saranno nell’immaginario comune confinati come gli svizzeri in una specie di limbo del tipo sì, occupano questo territorio geografico, però no, la vera Europa o è Ue o non è? Come dimostrato in precedenza, lo sport riesce a fornire esempi lontani da tale dicotomia. Per esempio l’Irlanda del Nord non è l’Irlanda: la prima fa parte del Regno Unito, la seconda è una repubblica indipendente. Il loro confine è stato teatro di scontri, insanguinato dalle lotte tra cattolici e protestanti, esercito inglese e IRA, eppure la nazionale irlandese di rugby raggruppa giocatori di tutte e quattro le province in cui l’isola è suddivisa, compresa quella oltre confine dell’Ulster.
Ad oggi lo sono e per lo sport – grazie al cielo – lo resteranno. Giovedì pomeriggio, a Le Golf National di Parigi, hanno risuonato gli inni americano ed europeo: The Star-Spangled Banner e l’Inno alla gioia, un preludio all’inizio dell’edizione 2018 della Ryder Cup, il torneo che ogni due anni vede contrapporsi Team Europe e Team USA a turno su una riva e l’altra dell’Atlantico. Gli americani sono i detentori del titolo, dopo il filotto di tre successi consecutivi degli europei. Dodici giocatori per parte, tra i quali l’italiano Francesco Molinari che quest’anno ha raggiunto vette altissime come la vittoria all’Open Champonship lo scorso luglio. E i britannici Paul Casey, Tommy Fleetwood, Tyrrel Hatton, Rory McIlroy, Ian Poulter e Justin Rose, oltre ai vice-capitani Luke Donald, Graeme McDowell e Lee Westwood.
Alcuni giornalisti al seguito dell’evento hanno provato ad approfittarne per introdurre l’argomento Brexit e vedere che effetto faceva, ma il leader della spedizione europea, il capitano danese Thomas Bjorn, ha proibito assolutamente che se ne parlasse nei giorni precedenti il tee di partenza – poi non ci sarà nemmeno il tempo per pensarci, c’è un primato da riconquistare.
Saggia e scontata decisione: per prima cosa Brexit non ha nulla a che vedere con la Ryder, in secondo luogo lo strappo d’Oltremanica di due estati fa ha provocato nell’immediato una frattura tale che necessita di tempo per ricomporsi, al di là delle trattative tra le parti, e ha svelato la fragilità di un impianto sovranazionale che non gode di particolare popolarità, in parte per pregiudizi nei suoi confronti, in parte perché non ha saputo comunicare con i cittadini che sono chiamati a sorreggerlo e ad essere destinatari finali delle decisioni prese nelle stanze del potere. Ha intossicato i rapporti, ha costruito muri e portato a galla una malcelata presunzione di colpevolezza tra gli eurofili convinti e agguerriti, che non riescono a pensare appunto ad un’Europa che non sia quella racchiusa tra i confini dell’Ue – e se qualcuno storce il naso, che populismo lo colga.
Tra quattro anni la Ryder farà tappa a Roma e Team Europe schiererà nuovi e vecchi volti e ancora una volta, con molta probabilità, alcuni di questi saranno britannici. Magari per l’occasione sarà stato necessario cambiare inno e simbolo, magari no, di certo accorreranno migliaia di tifosi per sperare in una vittoria dell’Europa che non per forza dev’essere quelle disegnata dall’alto, quanto piuttosto quella che riesce a fare da collante senza bisogno di direttive e regolamenti, ma grazie semplicemente alla comunione d’intenti. Ovvero vincere.