Nei Paesi anglosassoni agende liberiste hanno sposato in passato posizioni “sovraniste”. In Italia un’alleanza sarebbe possibile e naturale, ma non ora. Ecco perché
Tecnocrate di padre partigiano e berlingueriano, Fabrizio Barca ha militato in Bocconi, Tesoro e Banca d’Italia, concludendo degnamente la propria attività politica come ministro senza portafoglio nel governo Monti. Nei giorni scorsi è stato autore, per l’Espresso, di un articolo dal provocatorio titolo “Se i neoliberisti si alleano con i sovranisti”, che ha colto alcuni di sorpresa. Molteplici indignate personalità hanno replicato che loro l’Italia la disprezzano davvero, che c’è più di un thread rigorosamente sopra i venti tweet a dimostrarlo, e che nessuno può permettersi di accusar loro di intelligenza con il Nemico. E noi, di cui speriamo il lettore si fidi, simili credenziali non osiamo metterle in dubbio. Di chi parlava dunque Barca? Vediamo insieme:
La destra autoritaria cavalca questa dinamica [di rifiuto della diversità e costruzione di nemici, avversione per elite ed esperti, domanda di comando autoritario] in tutto l’Occidente e in una grande democrazia come l’India. Per alcuni anni, la parte prevalente della destra neoliberista ha colto in questa dinamica un rischio per i propri interessi e per la visione del mondo, che comprende libertà di movimento e di parola: lo ha scritto nei suoi mezzi di comunicazione, nei suoi Forum e negli organismi internazionali che egemonizza, e ha assecondato “aperture sociali e ambientali”. Ma, ci dicono le vicende degli ultimi mesi, appena la sinistra ha preso a tirare su la testa nelle forme variegate di cui si è detto, la destra neoliberista si è trovata a fare una scelta. E vediamo così prevalere la tolleranza o una vera e propria intesa de facto con la destra autoritaria. Pur di spiazzare la questione sociale, si è pronti a lasciare che la questione identitaria abbia il sopravvento. È la lezione britannica. Sono i segni di altri paesi Europei, noi inclusi, e degli Stati Uniti.
Insomma, il titolo era fuorviante, e Fabrizio Barca con “neoliberisti” non intendeva quei Competenti signori di provato Europeismo, ma si riferiva piuttosto a ciò che nella retorica marxista è noto come “il Grande Capitale”. Si noti anche che “l’alleanza” consisterebbe di uno spettro compreso tra “vera e propria intesa” e mera “tolleranza”, e che l’Italia non sarebbe che uno dei Paesi osservati, probabilmente neanche il caso più rappresentativo. Ora, non è nostro interesse correggere o rigettare ogni sua singola osservazione o insinuazione. Ci limiteremo a sottolineare come egli ometta che in America e Regno Unito, da Enoch Powell e Barry Goldwater agli stessi Thatcher e Reagan, almeno fino agli anni ’90, agende liberiste hanno sposato posizioni che sarebbero giudicate raccapriccianti nella totalità dei salotti milanesi, sicché nel blocco anglosassone il fenomeno ch’egli descrive sarebbe tutt’al più un ritorno alle buone abitudini dopo uno sciagurato intermezzo.
Soffermiamoci invece sul caso italiano, dove in effetti rilevanti settori di un’alta borghesia anticlericale hanno storicamente preferito amoreggiare con la sinistra, generando il disgustoso e apparentemente indistruttibile ircocervo che controlla oggi pervasivamente l’Italia, e del quale Fabrizio Barca è un meritevole rappresentante.
A tal punto aduso al monopolio del potere della propria fazione, e del suo spietato uso nel reprimere il dissenso, Barca è ora angosciato dalla “tolleranza” verso Matteo Salvini o Giorgia Meloni esibita di recente da La Stampa, Corriere e Times, che appariranno ai suoi occhi – presumiamo – alla stregua di vili traditori di classe.
Non siamo in grado di stabilire con certezza in che misura Barca sia fedele ritrattista degli eventi cui assiste, e in quale uomo di parte interessato a deformarli per promuovere un ritorno del proprio schieramento al repertorio marxista. Supponiamo tuttavia che dica il vero, che una quota rilevante dei Poteri Forti dell’economia e della finanza d’Italia, con loro i rispettivi house organs, decidano di provare a discutere con le forze sovraniste.
Chi vi scrive è del parere che un progetto politico duraturo necessiti di compatibilità tra ideologia, interessi di una o più elite, e interessi popolari. Se sul piano ideologico, come vedremo in futuro, un’alleanza è non solo possibile ma naturale e auspicabile, le altre condizioni suggeriscono cautela. Quei Poteri Forti, infatti, hanno ritenuto fosse loro interesse restare ancorati ad ogni costo ad un’Europa a guida tedesca, e non ci risulta abbiano cambiato opinione. A tal scopo hanno benedetto, dal 2011 ad oggi, una serie di governi di ispirazione più o meno tecnocratica, con la sola parziale eccezione del Conte I. In questo grafico i risultati:
Riassumerò per il lettore quel che egli si ritrova dinanzi: negli ultimi vent’anni si è aperto tra Italia e Germania un divario del 35 per cento circa nel costo unitario del lavoro, che ne danneggia gravemente la competitività, nonostante gli sforzi dei governi della Competenza per ridurre il costo del lavoro (svalutazione interna) ed aumentarne la produttività. In un mondo razionale, uno dunque in cui l’Euro non esisterebbe, l’Italia avrebbe già lasciato che il mercato conducesse la lira dove ritenuto opportuno. Non si tratterebbe di una presunta “immorale” “svalutazione competitiva”, ma di normale deprezzamento dovuto a forze di mercato.
Se quei Poteri Forti intendono persistere nel fallimentare tentativo di svalutazione interna, ed affidarlo ora alle forze sovraniste, è opportuno replicare con un “no, grazie”. Laddove hanno fallito l’allora acclamatissimo governo Monti, nonché svariati governi di centrosinistra in grado di poter contare sulla relativa complicità dei sindacati, che speranze di successo avrebbe un governo di centrodestra contro il quale i sindacati sarebbero liberi di riscoprire la piazza? Realistico supporre nessuna. Altrettanto realistico è che nessun “productivity miracle” sia dietro l’angolo. Non solo la recente performance italiana è disastrosa, ma la portata del miglioramento necessario è impraticabile.
A complicare ulteriormente il quadro vi sarebbero politica fiscale e monetaria avverse da parte di un’Europa forte della possibilità di servirsi delle questioni MES ed Unione Bancaria quali armi di ricatto.
Concludendo, insomma, non ci pare che qualche mese al capotavola del banchetto delle nomine renda tollerabile la missione suicida appena descritta nei suoi tratti più raccapriccianti.