Dicevano di aver capito Trump pur non avendo capito la sua campagna e nemmeno intuito le sue concrete chance di vittoria. Un isolazionista, il “puppet” di Putin, una sciagura per l’ordine liberale, si stracciavano le vesti commentatori ed esperti il giorno del giuramento del 45esimo presidente degli Stati Uniti. Ma non passa praticamente settimana senza che nuovi fatti si incarichino di smentirli.
Gli ultimi due, in ordine di tempo ma non di importanza, sabato e lunedì.
Secondo quanto riporta il Wall Street Journal, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha annunciato ad un gruppo di parlamentari che la Germania aprirà il suo mercato al gas naturale liquefatto Usa e che il governo federale cofinanzierà con 500 milioni di euro la costruzione di un terminal nel nord del Paese. Una scelta “strategica” che ripagherà nel lungo termine, l’ha definita la cancelliera.
E una concessione chiave al presidente Trump, che da quando è in carica sta provando a riequilibrare i rapporti commerciali tra le due sponde dell’Atlantico e chiedendo di ridurre la dipendenza dell’Europa dal gas russo. Funzionari tedeschi e americani hanno spiegato che Berlino spera che l’apertura al gas Usa possa aiutare a risolvere la disputa commerciale con Washington e ad evitare le minacciate sanzioni americane contro il gasdotto Nord Stream 2 tra Russia e Germania.
Anche di recente Trump aveva sferzato proprio la Germania smascherando le sue ambiguità con la Russia di Putin. Aprendo il vertice Nato del luglio scorso con il segretario generale Stoltenberg, il presidente Usa era andato dritto al punto: “La Germania è prigioniera della Russia sull’energia e noi dovremmo proteggerla dalla Russia? Ce lo spieghi”. “Molto triste che la Germania concluda un imponente accordo su gas e petrolio con la Russia, pagandole miliardi su miliardi dollari l’anno, quando si suppone che noi dovremmo proteggerla dalla Russia. Non ha senso”.
Le importazioni di gas naturale liquefatto Usa sono aumentate in molti Paesi europei tra 2016 e 2017: Spagna, Portogallo, Lituania, Italia, Regno Unito, Polonia, Paesi Bassi. Mancava del tutto la Germania, le cui importazioni di gas ad oggi dipendono per oltre il 50 per cento da Mosca. Gli esperti concordano che non ci sarà un immediato beneficio economico per la Germania (anche per i costi di trasporto e rigassificazione, il gas Usa costerebbe secondo le stime circa il 20 per cento in più di quello russo, che arriva direttamente attraverso pipeline), ma il progetto potrebbe contribuire a diversificare le sue fonti energetiche.
“Stiamo creando posti di lavoro e rinsaldando le relazioni transatlantiche. Gli Stati Uniti sono davvero impegnati a portare il loro gas naturale in Europa e in Germania”, ha detto l’ambasciatore americano a Berlino, Richard A. Grenell, durante la cerimonia nella capitale tedesca di uno dei consorzi in gara per la costruzione del terminal. Le forme del sostegno governativo non sono ancora state definite, ma la decisione dovrebbe essere formalizzata entro la fine dell’anno. Le località individuate sono due: nei pressi della cittadina di Stade o di quella di Brunsbüttel, entrambe vicino Amburgo. Secondo il ceo del consorzio LNG Stade, Manfred Schubert, il sito sarebbe pienamente operativo dal 2023 se i finanziamenti fossero garantiti entro la fine di quest’anno. “Dobbiamo compiere questo passo ora, e non solo perché ce lo chiede Mr. Trump, ma perché è necessario per il futuro”, sono le parole di Oliver Grundmann, un parlamentare tedesco di Stade: “Stade sarà il simbolo della nuova relazione transatlantica”.
La decisione di sabato invece è stata annunciata dal presidente Trump: gli Stati Uniti hanno intenzione di ritirarsi dal Trattato sulle forze nucleari intermedie (INF), ovvero sui missili a medio raggio (500-5.500 km), che fu sottoscritto nel 1987 da Ronald Reagan e dal presidente dell’allora Unione sovietica Mikhail Gorbaciov. “Finché qualcuno viola questo accordo, non saremo gli unici a rispettarlo”, ha detto il presidente americano. “La Russia ha violato l’accordo, lo violano da molti anni, non so perché il presidente Obama non ha negoziato o non si è ritirato, quindi abbiamo intenzione di chiudere l’accordo e svilupperemo quelle armi”. “A meno che – ha aggiunto – Russia e Cina non vengano da noi e dicano: ‘Facciamoci tutti intelligenti e nessuno di noi sviluppa quelle armi’… Ma che Russia e Cina lo stiano facendo, mentre noi stiamo rispettando l’accordo, è inaccettabile”, ha osservato Trump mentre nelle stesse ore il suo consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton era a Mosca con il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov – forse anche per preparare un secondo summit fra Trump e il presidente Putin entro quest’anno (la data potrebbe essere l’11 novembre a Parigi).
Il ritiro dal Trattato INF è uno dei più rilevanti cambiamenti della politica estera americana dalla fine della Guerra Fredda e non è un caso che il presidente Trump abbia citato anche la Cina, che sta sì sviluppando quei missili, ma che in realtà non sta violando alcun trattato, dal momento che non l’ha mai firmato, essendo un accordo Usa-Urss. Ebbene, il messaggio di Trump non è solo per Mosca ma anche per Pechino. Gli Stati Uniti non si faranno legare le mani sui loro armamenti da un trattato con un nemico che non c’è più, o per lo meno non rappresenta più la minaccia esistenziale di un tempo, mentre il vero rivale strategico del XXI secolo – la Cina – è libero di sviluppare e dispiegare i missili che vuole.
Altro che isolazionista. La politica estera del presidente Trump è “ambiziosa, interventista e globale”, come ha scritto Walter Russell Mead sul Wall Street Journal. “Avendo stabilito dopo quasi due anni di tentativi che le tre potenze revisioniste (dell’ordine internazionale, ndr) – Cina, Russia e Iran – non possono, almeno per ora, essere separate, l’amministrazione si sta preparando ad affrontarle tutte in una volta”.
L’escalation del confronto con la Cina: il discorso del vicepresidente Pence sulla strategia di contenimento di Pechino; la guerra dei dazi che si intensifica; il ritiro da un trattato sui servizi postali che avvantaggia le spedizioni cinesi negli Usa e ora dal Trattato INF.
La linea dura con Mosca, che può sorprendere solo chi crede ancora nella favola di Trump “puppet” di Putin e nella montatura del Russiagate (in realtà FBI-gate). Nella stessa settimana in cui il presidente ha annunciato il ritiro dal Trattato INF, per la prima volta da 27 anni (dal crollo dell’Urss) una portaerei americana, la Uss Harry Truman, è entrata nelle acque situate a nord del Circolo Polare Artico con il suo gruppo di attacco e supporto (tre destroyer, un incrociatore e due sottomarini), per unirsi all’esercitazione Nato “Trident Juncture”.
La politica energetica e commerciale nei confronti dell’Europa del presidente Trump sta dando i primi frutti, che non possono far piacere a Putin: dell’apertura della Germania al gas Usa e delle importazioni in aumento negli altri Paesi europei abbiamo già parlato, ma sempre la scorsa settimana, la Polonia ha siglato un accordo da 2 milioni di tonnellate l’anno di gas naturale liquefatto dagli Usa, 2,7 miliardi di metri cubi (oltre il 15 per cento degli attuali consumi polacchi).
Negli stessi giorni, giovedì scorso per la precisione, l’assistente al segretario di Stato per gli affari europei ed euroasiatici, Aaron Wess Mitchell, all’Atlantic Council descriveva in termini lapidari la nuova era della competizione Usa-Russia, definendo Ucraina, Georgia e persino la Bielorussia come “baluardi contro il neo-imperialismo russo” e annunciando un maggiore sostegno degli Stati Uniti in difesa della loro indipendenza e sovranità.
“Dal Baltico all’Adriatico, passando per la penisola balcanica e il Caucaso, i rivali dell’America stanno espandendo la loro influenza politica, militare e commerciale. La Russia è di nuovo un fattore militare in questa regione, alla luce delle invasioni della Georgia e dell’Ucraina. Ben oltre la frontiera, nei Paesi dell’Europa centrale, la Russia usa tattiche manipolatorie dell’energia, corruzione e propaganda per indebolire le nazioni occidentali dall’interno e compromettere i loro legami con gli Stati Uniti”.
Quanto all’Iran, nonostante il caso Khashoggi l’amministrazione Trump resta determinata a coordinare con Ryad le proprie politiche per contenere e isolare Teheran, a cominciare dalla reimposizione delle sanzioni più dure il prossimo 5 novembre.
Ci aspettiamo che gli alleati dell’America non favoriscano i suoi rivali, ha detto Mitchell, con un chiaro riferimento soprattutto alla Germania.
“Gli europei non possono continuare ad accrescere la propria dipendenza energetica dalla stessa Russia da cui l’America li difende. Né arricchirsi grazie allo stesso Iran che sta costruendo missili che minacciano l’Europa”.
Politiche che certo non implicano una riduzione, bensì un incremento dell’impegno politico e militare Usa all’estero. Nonostante il caso Khashoggi, anche i diritti umani stanno scalando l’agenda dell’amministrazione, come arma per costruire consenso attorno alle politiche di confronto con Cina, Russia e Iran.
Anche sul piano commerciale, non è una visione economica protezionista, o un attacco radicale alla globalizzazione, a guidare le mosse dell’amministrazione Trump. Ora che la guerra dei dazi comincia a dare i suoi primi frutti, stanno emergendo più chiaramente i veri obiettivi strategici di Washington. Un obiettivo economico, ridurre il deficit commerciale, ma soprattutto uno geopolitico: contenere la Cina, frenarne l’ascesa, impedirle di ridurre il gap tecnologico, richiamando all’ordine, ricompattando a sé gli alleati, non blandendoli come in passato ma in pratica minacciandoli, ricordando loro quanto dipendono dagli Stati Uniti per la loro sicurezza e prosperità economica.
Dopo due anni di mandato Trump è riuscito a rinegoziare il Nafta con Canada e Messico, una promessa della campagna elettorale che molti ritenevano impossibile da mantenere, e siglato una tregua con l’Ue. Nei giorni scorsi la Casa Bianca ha notificato al Congresso l’intenzione di iniziare a negoziare accordi di libero scambio bilaterali con Ue, Regno Unito e Giappone.
È proprio il nuovo Nafta, che presumibilmente servirà da modello per i futuri accordi, a svelare il vero target di Trump: esso contiene infatti una clausola battezzata come “anticinese”, nel senso che vieta ai contraenti di siglare accordi di libero scambio con Paesi che non siano economie di mercato. E guarda caso Stati Uniti e Unione europea si rifiutano – con qualche ragione di merito – di riconoscere a Pechino lo status di economia di mercato in ambito WTO.
Altro che minaccia all’ordine liberale, potrebbe essere l’ultimo treno per riformarlo e salvarlo. Gli Stati Uniti stanno cercando di ridisegnare un ordine internazionale che si sta allontanando dai loro interessi e sta tendendo verso il disordine, di ridefinire a proprio vantaggio gli equilibri, i rapporti con alleati e rivali, prima che sia troppo tardi. Prima che siano i rivali, su tutti la Cina, ad avere sufficiente potere per imporre il loro modello.
Non è detto che la strategia dell’amministrazione Trump funzioni e abbia successo. C’è il problema politico di portare un Paese estremamente diviso, com’è oggi l’America, a sostenere una politica estera così ambiziosa, rischiosa e costosa, o almeno a non opporvisi. E c’è il problema geopolitico di ingaggiare contemporaneamente avversari come Cina, Russia e Iran, e alleati riottosi come l’Ue.
Per esempio, giorni fa il presidente russo Putin ha definito un “enorme errore strategico” da parte degli Usa penalizzare le compagnie europee che fanno affari con l’Iran, un errore di hybris, di arroganza, tipico di una “potenza imperiale” che “si crede così forte e stabile che non ci saranno conseguenze negative. Ma no, esse prima o poi arriveranno”.
Avrà ragione Putin? Non possiamo prevedere se la politica estera del presidente Trump sarà un successo, un fallimento, o “una via di mezzo” tra i due, riflette Walter Russell Mead, ma “sembra determinato a sconvolgere il sistema internazionale come ha fatto con la politica americana”.