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Altro che “neutrale”. La scelta legittima, ma molto politica di Mattarella

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Come prevedibile, dopo l’annuncio del presidente Mattarella del sostanziale fallimento delle consultazioni e dell’imminente nascita di un “governo del presidente” (l’aggettivo “neutrale” lo lasciamo agli “ingenui” in buona o cattiva fede, ma ci torneremo), si è scatenata la caccia al colpevole dello stallo politico in cui si trova il Paese.

Che i partiti e i leader politici abbiano commesso errori, ed orrori, negli ultimi anni, mesi e settimane, non ci piove (a cominciare dal Rosatellum, ma ci verremo tra poco). Ma siamo proprio sicuri che il presidente Mattarella non ci abbia messo del suo, perdendo tempo, per pregiudizio politico, e inseguendo un suo calcolo, forse sbagliato?

Nelle crisi di governo e nelle situazioni di stallo politico come l’attuale la nostra Costituzione attribuisce ampia discrezionalità al presidente della Repubblica. Le norme sono piuttosto scarne. Vado a memoria: il presidente nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri. Entro dieci giorni il governo si presenta alle Camere per la fiducia. Tutto ciò che c’è in mezzo, dal voto alla pienezza dei poteri del nuovo governo, avviene secondo prassi. Alla quale, per definizione, ci si può attenere, ma che è sempre soggetta ad evoluzioni ed aggiustamenti.

Dunque, per favore, basta con questa narrazione “doloristica” delle “inquietudini” del Quirinale, quasi fosse una vittima di questo processo e non avesse avuto alternative. Non si parli di “saggezza” o di scelta “dovuta”. Il presidente Mattarella ha usato in modo perfettamente legittimo questa ampia discrezionalità, assumendo una decisione politica.

Ci sono domande a cui il Colle non può sfuggire e che evidenziano la totale discrezionalità politica della sua decisione: perché non assegnare un incarico formale, e nemmeno un pre-incarico, limitandosi a due mandati esplorativi?

Rispondono i cosiddetti “esperti”: ma il presidente non può incaricare Salvini o Di Maio “se non hanno i numeri”. Dove sta scritto che bisogna dimostrare di avere una maggioranza certa non solo prima di sciogliere la riserva e giurare, ma addirittura prim’ancora di ricevere l’incarico? Certo, sarebbe preferibile. Ma anche i testi dei più autorevoli costituzionalisti si esprimono in termini probabilistici: il presidente attribuisce l’incarico alla personalità che abbia realisticamente “maggiori possibilità” di ottenere a sostegno del proprio governo una maggioranza parlamentare. Anche qui torna un elemento di discrezionalità…

Ma siamo talmente assuefatti alle crisi extraparlamentari, che ormai si ritiene una forzatura verificare in Parlamento se un governo abbia i numeri o meno. Persino un parlamentarista convinto come Mattarella decide di lasciare le Camere fuori dai giochi, sperando che la soluzione si dipani nel chiuso delle stanze del Quirinale, se non per sms e social media. Perché escludere che un governo politico possa riuscire a convincere gruppi o singoli parlamentari, magari su un programma minimo e a tempo, quanto meno a non farsi sfiduciare?

Ammettiamo che nessun esponente del centrodestra avesse, a giudizio del presidente, questa realistica possibilità: perché al suo incaricato di fiducia per formare il governo “neutrale” verrà concesso di andarsi a cercare in Parlameno i numeri che non ha, mentre la stessa possibilità è stata negata ad un esponente della coalizione o del partito più votati e più vicini alla maggioranza dei seggi?

Se la logica è quella della realistica possibilità di raccogliere una maggioranza, perché preferire un “governo del presidente” che, numeri alla mano, partirebbe da molti meno voti rispetto a un governo espressione del centrodestra? Si parla del 37 per cento dei voti, ma ciò che sfugge, e che conta, è che il centrodestra può contare su quasi il 43 per cento dei seggi. Mancano una cinquantina di deputati e una ventina di senatori. Stando alle dichiarazioni piuttosto nette di queste ore, il “governo del presidente” parte dai voti del Pd e pochi altri. Siamo sotto di centinaia…

E perché, se dev’esserci comunque un governo di minoranza per portare il Paese alle elezioni anticipate, non può essere quello della coalizione più votata? Che una legislatura arrivi a scadenza naturale o finisca prematuramente, è di solito un governo di parte dimissionario a portare alle urne, senza che nessuno tema per la regolarità del voto.

Stiamo rischiando di precipitare verso elezioni anticipate senza nemmeno che la legislatura sia partita, o di farla partire con un “governo del presidente”, due estreme ratio, senza che il presidente della Repubblica abbia attribuito nemmeno un pre-incarico ad un esponente delle forza politiche maggioritarie in Parlamento. Due mandati esplorativi, certo. Falliti. Ma quel che si finge di non comprendere è che un incarico formale, o pre-incarico, avrebbe potuto cambiare le carte in tavola. L’incaricato infatti è colui che in caso di successo viene nominato presidente del Consiglio ed è ovvio che per questo avrebbe avuto maggiori armi negoziali per convincere gli interlocutori a sostenere il suo governo o, almeno, a non sfiduciarlo.

Dunque, un incarico formale o un pre-incarico avrebbero potuto essere un game changer. Nessuna certezza, ovviamente, ma sarebbe stato più che ragionevole tentare. Non sarebbe stata una forzatura nemmeno far giurare un governo politico e mandarlo alle Camere per verificare l’esistenza di una maggioranza. Di solito, eventuali “responsabili”, o meglio “disperati”, si manifestano con un governo in carica, non prima… E non sarebbe la prima volta che un governo nasce, o sopravvive, a dispetto dei numeri della vigilia del voto di fiducia. Tra l’altro, in caso di insuccesso, avrebbe comunque tolto ogni alibi a Salvini e Di Maio dinanzi all’opinione pubblica e non avrebbe precluso alcuna soluzione ulteriore al Quirinale.

Perché, dunque, negare al centrodestra un vero tentativo? La mia personale lettura, è che pur di non rischiare un governo di centrodestra guidato dalla Lega, Mattarella abbia preferito la prova di forza senza avere i numeri, mettendo quindi in gioco la credibilità stessa dell’istituzione che rappresenta. Ha dapprima preso, o meglio perso tempo per chiudere la finestra elettorale di giugno, quella che più probabilmente avrebbe garantito un esito da ballottagio tra centrodestra e M5S, sacrificando però il Pd. Per poi mettere i partiti di fronte all’inevitabilità (vista la difficoltà delle date alternative per il voto) di un governo del presidente, talmente “neutrale” che dovrebbe servire da ciambella di salvataggio al Pd, arrivando fino a dicembre, e/o a far maturare l’ipotesi di governo M5S-Pd, ma che invece rischia solo di precipitare il Paese al voto in piena estate o ad ottobre, garantendo il pieno di voti a M5S e Lega, o di costringere Berlusconi, per paura di venire dissanguato dal ritorno alle urne, a permettere la nascita di un governo Salvini-Di Maio. Sarebbe il tipico esempio di conseguenze non intenzionali.

Non esistono governi “neutrali”. Com’è perfettamente naturale, non c’è un solo nome di una personalità politicamente “neutra” tra quelli che si fanno in queste ore per la presidenza del Consiglio e i ministeri. Anzi, ed è un po’ meno naturale, sono tutte o quasi “d’area” Pd. Sarà un caso che proprio il partito dell'”andiamo all’opposizione” sarà il primo (e forse il solo) a votare la fiducia all’Esecutivo del presidente?

L’ennesimo governo tecnico, non espressione della volontà dei cittadini, non può che gettare benzina sul fuoco della sfiducia di gran parte dei cittadini nelle istituzioni democratiche, Quirinale compreso, alimentando il sospetto che il presidente abbia voluto tentare un “governo dei perdenti”, d’intesa con élite e poteri dagli oscuri interessi. Sentimenti e sospetti su cui, c’è da scommettere, Salvini e Di Maio faranno ampiamente leva.

Non si può nemmeno prescindere dalla legislatura dalla quale veniamo, che non si può negare abbia contribuito, e non poco, al risultato del voto del 4 marzo. Nel 2013, con il 29 per cento dei voti la coalizione guidata dal Pd ha avuto la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, grazie a un premio poi giudicato incostituzionale. Su questa base, mancando invece i numeri al Senato, si è fatto appello al senso di responsabilità di Silvio Berlusconi per l’avvio della legislatura. Ma già dopo pochi mesi, il Pd, con il 25 per cento dei voti alla Camera e il 27 al Senato, si è ritrovato praticamente solo e indisturbato al governo, con l’appoggio di finti partiti, fuoriusciti da FI, che non si sono nemmeno presentati a queste elezioni. Con questi precedenti, oggi si è negato persino un incarico a una coalizione che ha conquistato il 37 per cento dei consensi. La mia personale sensazione è che se la coalizione a guida Pd avesse avuto quasi il 43 per cento dei seggi, avremmo visto susseguirsi pre-incarichi a oltranza, a tutti i capi-corrente Dem, prima di prendere in considerazione altre soluzioni.

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