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Ammesso che per Dio non esistano stranieri, per “Cesare” esistono eccome: Bergoglio e la “coranizzazione” del cristianesimo

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“Nessuno è straniero per Dio”, ha detto il Papa e la sua frase sembrerebbe trovare un immediato riscontro nell’affermazione di Paolo per cui “in Cristo non c’è più greco né ebreo”. In verità quella frase si riferiva al fatto che la fede dovesse essere predicata universalmente, oltre gli steccati nazionali (un’esigenza di base del cristianesimo che stride con l’assunto di Bergoglio che con gli altri bisogna solo “dialogare”, sempre col capo piegato e il cuore contrito, senza mai fare proseliti).

“Nessuno è straniero per Dio”: frase potente, di sapore tolstojano. E tuttavia, se con quella suggestiva espressione si vuole affermare un ideale di inclusività assoluta, il “detto di Bergoglio” rischia di sollevare problemi qualora si volessero cercare fonti bibliche ed evangeliche a supporto. 

Nell’Antico Testamento Dio ha un popolo, quindi marca nettamente la differenza tra “i suoi” e gli stranieri. Nel Nuovo Testamento il popolo storico si sublima in una comunità di fede. E per delimitare l’appartenenza a quel popolo vale un detto ben poco petaloso del Cristo: “Molti sono chiamati, pochi sono gli eletti”. D’altra parte, la Gerusalemme Celeste immagine del Paradiso che scende in terra alla fine dei tempi ha poderose mura, come ogni città che si rispetti.

Ma veniamo al punto, quando anche fosse vero (e non è vero) che “Per Dio non ci sono stranieri”, il punto è che per il Cesare gli stranieri ci sono, anzi la distinzione tra cittadino e straniero è fondativa della politica. Il confine erige la società civile e la distingue dalla giungla. Ovviamente il confine si apre e si chiude secondo principi di opportunità e qualche volta addirittura di equità, ma non lo si lascia mai sguarnito. Non lo si affida certo alle intenzioni della Carola di turno.

Il cristianesimo ha avuto uno straordinario impatto sulla evoluzione delle istituzioni politiche d’Occidente proprio per quella distinzione fondamentale: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Con quella frase Cristo pone il germe della laicità della politica. Dare a Dio quel che è di Dio significa che l’Imperatore non può essere divinizzato e che in generale il potere politico non può essere sacralizzato. Ma, a sua volta, Dare a Cesare quel che è di Cesare significa affermare che alla politica deve essere riconosciuta la sua autonomia; devono essere rispettate le realistiche esigenze del “fare Stato”. Questa è la base del realismo politico che è fortemente intriso di vero cristianesimo.

Chi non ha capito questa lezione ha cercato di imporre con inevitabile violenza il paradiso in terra, sognando purificazioni assolute e conseguenti stermini. La distinzione tra esigenze spirituali e temporali è uno dei grandi punti di separazione tra cristianesimo e islam. Nell’Islam vige la Sharia, ovvero l’ideale della congiunzione di legge religiosa e legge civile. In base a quella congiunzione però il peccato diventa reato, e si lapidano le adultere o i bevitori di alcool. Diciamolo chiaramente, Bergoglio attua una “coranizzazione” del cristianesimo mirando a trasformare comandamenti spirituali in decreti legge.

Ma l’amore per decreto legge non ha mai funzionato. Per questo sbaglia Bergoglio a voler imporre dallo scranno più alto di Santa Romana Chiesa quella che è una tentazione perpetua dei Gesuiti: politicizzare la religione e imporre alla vita politica una asfissiante cappa religiosa. Il rispetto del “Cesare” con il conseguente realismo politico è la via di un cristianesimo più riflessivo e diciamo pure più autentico. E quando anche per Dio non esistano stranieri, per il “Cesare” esistono eccome.