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Anche di fronte all’emergenza coronavirus la sinistra preferisce buttarla sul razzismo

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Mentre aumentano i dubbi sull’attendibilità dei numeri ufficiali del contagio diffusi da Pechino, la domanda ora diventa: ci possiamo fidare dell’Oms?

Ridotta all’osso, la questione si può riassumere così: siccome la richiesta di isolare studenti di ritorno dalla Cina era arrivata dai governatori leghisti delle regioni del nord, governo e stampa allineata l’hanno buttata sul razzismo, salvo poi dover correre (parzialmente e tardivamente, come vedremo) ai ripari.

Mentre qui ci stiamo ancora chiedendo se sia discriminatorio o se viola il diritto allo studio lasciare a casa per 14 giorni bambini e ragazzi di ritorno dalle zone a rischio, nei giorni scorsi una ottantina di studenti italiani sono rientrati da diverse località della Cina facendo due scali (Hong Kong e Londra) per aggirare il blocco dei voli. E dopo diversi giorni, solo ieri i giornali si sono accorti del caso di una famiglia taiwanese (padre, madre e i due figli) risultata positiva al coronavirus una volta rientrata a Taiwan, dopo aver girato per una decina di giorni in Italia, in Toscana e a Roma…

Prima la sottovalutazione, poi l’allarmismo, con il blocco dei voli Italia-Cina e l’emergenza nazionale. Questo l’atteggiamento schizofrenico del governo italiano, ma anche dei media mainstream, alle prese con l’emergenza globale coronavirus. Poi, ancora, giorni e giorni in cui tutti – politici, giornali e talk show – sembravano preoccuparsi più di insignificanti (e a volte fake) episodi di discriminazione nei confronti della comunità cinese che della pericolosità del virus e della inaffidabilità dei numeri ufficiali provenienti da Pechino e dall’Oms – di cui si parla ormai apertamente anche sui più autorevoli organi di stampa internazionali sulla base di reportage e testimonianze dirette. Giorni culminati addirittura con una visita del presidente della Repubblica Mattarella in una scuola di Roma frequentata da molti bambini cinesi. Per dimostrare cosa? Quanto fosse ingiustificata e discriminatoria la richiesta dei governatori di alcune regioni (guarda caso della Lega) di tenere a casa per 14 giorni bambini e ragazzi di “qualsiasi nazionalità” di ritorno dalle zone della Cina colpite dall’epidemia.

Fino a sabato, quando il Ministero della salute dirama una circolare che pur ribadendo il “diritto inalienabile di bambini e ragazzi, di qualsiasi nazionalità, di frequentare liberamente e regolarmente la scuola in assenza di evidenti e conclamate controindicazioni di carattere sanitario”, dispone tuttavia che, “in uno spirito di massima precauzione, il Dipartimento di prevenzione della Asl di riferimento favorisce una permanenza volontaria fiduciaria a casa sino al completamento del periodo di 14 giorni dalla partenza dalla Cina”. Insomma, bambini e ragazzi di ritorno dalla Cina assenti giustificati (e monitorati) fino a 14 giorni.

I governatori cantano vittoria – comprensibilmente, perché la circolare dimostra che la loro richiesta era più che fondata – ma a ben vedere la disposizione è tardiva (di almeno una decina di giorni), ipocrita (perché scarica su famiglie e scuole la decisione di “attivare” l’Asl di riferimento) e insufficiente (perché rischia di determinare comportamenti non omogenei a livello nazionale, diversi addirittura da scuola a scuola).

Si tratta comunque di un’implicita ammissione che la misura, tacciata di discriminazione quando a proporla erano stati i governatori di alcune regioni, è invece opportuna e, quindi, tardiva.

E arriva, guarda caso, poche ore dopo un contagio molto preoccupante. In Alta Savoia sono risultati positivi al coronavirus 5 cittadini britannici, tra cui un bambino di 9 anni, che per quattro giorni hanno condiviso con un altro britannico di ritorno da Singapore uno chalet nella località sciistica di Contamines-Montjoie. Le autorità francesi hanno subito disposto la chiusura per accertamenti delle due scuole frequentate dal bambino.

Allarmante la tempistica. L’uomo è tornato nel Regno Unito il 28 gennaio e il virus gli è stato diagnosticato giovedì 30. A Contamines-Montjoie era arrivato il 24 gennaio, dopo essere rimasto a Singapore per soli tre giorni, dal 20 al 23, quando i casi confermati di coronavirus nella ex colonia britannica erano appena 3! Dunque, o è stato incredibilmente sfortunato, oppure il numero dei contagiati era già allora enormemente superiore. E i casi come questo, che autorizzano a dubitare fortemente dell’attendibilità dei numeri ufficiali, sono all’ordine del giorno. Basti pensare che su 56 italiani evacuati da Wuhan la scorsa settimana uno era positivo, così come uno dei 9 cittadini belgi rientrati. Anche qui: coincidenza terribilmente sfortunata, o forse a Wuhan il rapporto un contagiato ogni 60 abitanti è più realistico? Coinciderebbe, infatti, con le stime degli studi pubblicati nei giorni scorsi su The Lancet di cui abbiamo parlato la scorsa settimana su Atlantico.

Sorprende, ma non più di tanto, che molti di coloro che si battevano per escludere dalle scuole i bambini non vaccinati, per giorni si siano opposti, sulla base di una inesistente discriminazione, a tenere per 14 giorni a casa bambini e ragazzi di ritorno dalla Cina. È rimasto invece coerente con se stesso, gli va dato atto, l’idolo dei “competenti” e icona della battaglia pro-vax, il virologo Roberto Burioni, che ritiene che al momento l’unico modo efficace per difenderci dal coronavirus sia l’isolamento per 14 giorni di chiunque arrivi dalla Cina – adulti e bambini, italiani, europei o cinesi. Come spiega su Medical Facts, controllare i passeggeri negli aeroporti è importantissimo, ma non sufficiente. Come dimostrano molti casi, come quelli del britannico in Alta Savoia o della famiglia taiwanese, il periodo d’incubazione è tale da permettere a un viaggiatore di partire e arrivare sano e di ammalarsi a destinazione, diffondendo il contagio nei suoi spostamenti.

Ma Burioni è anche l’unico scienziato in Italia a mettere esplicitamente in dubbio l’attendibilità dei numeri ufficiali sul contagio diffusi da Pechino. Il professor Neil Ferguson, direttore del Jameel Institute for Disease and Emergency Analytics dell’Imperial College di Londra ha avvertito in una recente intervista che i casi di infezione riportati in Cina potrebbero essere solo il 10 per cento del totale, che ogni giorno potrebbero essere contagiate 50 mila nuove persone e che l’epidemia potrebbe raddoppiare ogni 5 giorni. Insomma, la situazione in alcune province cinesi potrebbe essere decisamente fuori controllo.

Emblematica del grave ritardo del governo di Pechino nel dare l’allarme ai suoi cittadini è la storia di un architetto cinese contagiato, e guarito, riportata ieri sul Wall Street Journal. Solo poche ore di permanenza a Wuhan sono bastate al trentenne Shen Wufu per contrarre il coronavirus il 18 gennaio, due giorni prima che fosse confermata dalle autorità la possibilità di contagio da uomo a uomo e decretata l’emergenza nazionale con le conseguenti misure di precauzione. Nei giorni successivi ha viaggiato in altre città causando la quarantena di 40 persone con le quali era stato in contatto. Come lui, nelle settimane e nei giorni precedenti il 20 gennaio, è ragionevole supporre che abbiano viaggiato in lungo e largo per tutto il Paese e senza precauzioni milioni di persone.

Se come abbiamo già osservato nell’articolo di lunedì scorso possono essere molteplici i fattori che rendono non credibili i numeri del contagio diffusi dalle autorità cinesi, dovrebbe essere responsabilità dell’Oms fare piena luce su quanto sta realmente accadendo in Cina, fornire stime realistiche alle autorità sanitarie degli stati membri, anche impiegando propri uomini sul campo. Al contrario la sensazione, a partire dagli encomi ingiustificati rivolti a Pechino, è che almeno nei suoi vertici l’Oms sia collusa, che stia gestendo “politicamente” l’emergenza per non irritare l’influente Cina, a danno della propria credibilità e indipendenza. Ora ha addirittura avviato una campagna contro le immancabili fake news e teorie cospirazioniste, ma se ad essere fake fossero i numeri ufficiali del contagio? Possiamo ancora fidarci dell’Oms?